La differenza e l’indipendenza

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Intervento di Placido Cherchi all’assemblea nazionale di iRS.

Potrei iniziare la conversazione di stasera – mi imporrò di essere tassativamente succinto, breve, sintetico – parafrasando il titolo di un mio scritto recente nel quale andavo, per così dire, computando le due o tre ragioni importanti, fondamentali, per essere sardo.
Oggi vorrei parlare invece delle due o tre ragioni importanti, e forse anche più di tre, per essere parte di iRS.

Io provengo da una storia, in termini politici, che è tutta segnata dalla militanza nell’allora PCI. Ai miei tempi fui anch’io, come Gavino oggi, su altra banda, consigliere provinciale a Sassari nel gruppo PCI. Dunque sono, per così dire, nutrito di marxismo. Un marxismo del dissenso, un marxismo che è sempre stato a muzighile tortu, insomma, dentro il Partito. Tant’è che mi sono ritrovato spesso sospeso a divinis. Così, non gradito al corpo istituzionale, al quadro.
Perché più che un marxismo inteso nel senso istituzionale del termine – io ed altri che già incominciavamo ad essere gruppo o gruppuscolo – andavamo cercando marxianamente il senso autentico delle cose di Marx, al di là di tutte le deformazioni addomesticanti che per esempio il PCI, o comunque le organizzazioni della sinistra europee, occidentali, andavano facendo del pensiero di Marx.
Nutrito di marxismo come sono, voi capite che per me la lotta di classe ha sempre rappresentato un punto di estrema importanza. Tant’è che proprio qui, due anni fa, in una conversazione gomito a gomito con Gavino, io posi – ero ancora esterno ad iRS – la domanda precisa a Gavino: come mai il programma di iRS non contenesse dei punti sostanziali riguardanti il momento fondamentale della lotta di classe.
Ricordo la risposta di Gavino «Eh raju, nudda-nudda mi ses tokende!». Da allora dentro sa kerveddera mia at incumentzadu a tribagliare carki cosa in cussa diretzione. In termini, direi, di critica, di autocritica o di ripensamento proprio delle convinzioni che fino ad allora per me erano state assiali, pilastro portante, chiave di volta. E sono arrivato alla conclusione che la lotta di classe è un lusso che soltanto i popoli liberi si possono permettere.

La storia insegna che prima della lotta di classe e di queste forme di dialettica deve poter esistere una libertà di natura politica. Cioè un’autosovranità dei popoli perché altrimenti tutta la sovrapposizione che il capitale internazionale può fare sulle etnie, sui popoli, sulle nazioni, è qualcosa che passa al di sopra di una importante questione che è proprio quella della indipendenza nazionale.
Qui in Sardegna che senso avrebbe potuto avere ragionare de sa lotta tra riccu e pòveru, cioè attraversare tutte le questioni profonde dell’economia, se prima non si risolvono, se prima non sarebbero state risolte in termini, se possibile, definitivi questi aspetti preliminari riguardanti appunto l’indipendenza, la libertà politica?
Perché è chiaro che noi, nel momento stesso in cui ci si vuole nazione, si aspira ad essere nazione, ci si costituisce come un organismo all’interno del quale esiste ovviamente una società civile, con tutte le sue articolazioni interne e i suoi dislivelli interni che sono di natura sociale ed economica.
Però una cosa è affrontarle alla luce del tipo di dialettiche che si muovono all’esterno di noi, altra cosa è affrontarle quando qui da noi si sia preliminarmente risolto il problema dell’autonomia e dell’indipendenza.

E chi è in Sardegna che porta avanti nel panorama attuale, ma anche nel panorama di allora, un programma, un progetto, che davvero ponga al primo punto la questione dell’indipendenza?
Chi se non gli indipendentisti? Quelli autentici, non quelli che giocando sulle sfumature del termine poi entrano in quelle altre dialettiche di piccolo cabotaggio che sono le alleanze, le manfrine da corridoio, le pratiche del politichese.
Soltanto iRS si è qualificato fin dalle prime battute come la formazione politica, come il programma, come il sogno mi verrebbe da dire, in cui davvero l’indipendentismo ha una forma pura, ha una forma pulita.
«Ma cun kie ti ses ponzende fizu meu?» diceva mamma pròpriu s’atera die a su telèfonu. «No ti preocupes, est zente pulida». «E tando, fizu meu, anda».

Questa purezza dell’indipendentismo sardo è naturalmente un punto fermo. Questa sì è una chiave di volta, una questione che rappresenta e costituisce un valore. Un valore per il quale vale la pena di battersi.
Tutte le altre questioni, quelle che per me erano state importanti ieri, verranno. Le affronteremo. Al momento giusto. Ci saranno anche qui contrapposizioni di classe, tra riccos e pòveros, però ne discuteremo in casa e non saranno più un riflesso, un riverbero di dialettiche nate altrove che si consumano altrove. Prima ragione.

La seconda ragione importante è tutto quello che può conseguire, da molti punti di vista, dalla conquista di una indipendenza, di una libertà. Sappiate che la salute dell’uomo, salute anche dal punto di vista mentale, è un dato che presuppone la coscienza della propria differenza.
La perdita della differenza è ciò che fa dell’uomo un folle, un alienato mentale.
Quando ci si sente assimilati a tutto il resto in un rapporto di non distinzione dove tutto è omologato, dove tutto diventa identico, la soggettività si smarrisce, si perde.
C’è una catastrofe del soggettivo, c’è una catastrofe della personalità. La perdita della differenza è forse il dramma più drammatico, se mi consentite, che possa capitare all’uomo.
Deo, pro esser’eo mi depo abberu sentire deo. Non posso rischiare di essere confuso con altro. Questa mia autenticità e anche questa mia unicità di persona mi deve essere restituita dalla mia differenza.

Se però la realtà mi nega la differenza a cominciare dal piano politico, per cui io non esisto già come sardo, non esisto più come individuo appartenente ad una comunità, ad una etnia, voi capite che qualsiasi possibilità di sentirmi diverso, di sentirmi io nella mia differenza, è perduta.
Proprio per questo mi colpiva molto, ieri, nella conferenza stampa [per la presentazione delle liste, ndr]tenuta da Gavino e da Franciscu, che ci fosse un insistere che mi è parso molto bello sul valore della concettualità che il programma iRS contiene. E sulla capacità di questo programma di far cominciare a passare, a livello concettuale, determinate concezioni e determinate aperture.

Ora, questa concettualità di cui parlavano entrambi, non è uno scherzo, è una cosa molto seria. Perché si può portare dentro, anzi, sono sicuro che si porta dentro tutto il valore della concettualità che appartiene alla nostra cultura.
Si diceva, ieri, che la nostra cultura è una cultura estremamente raffinata, discende da una civiltà che è un grande accumulo di retaggi, di eredità, fra le più alte, le più preziose, le più elaborate che la storia del Mediterraneo abbia conosciuto.

Noi abbiamo fatto tesoro, noi ce ne siamo per così dire investiti e costituiti. E se appena si facesse una analisi della Lingua che parliamo, quale che sia la variante, noi potremmo facilmente renderci conto di che tipo di civiltà siamo portatori. Sono profondamente convinto che il riferimento a questi retroterra fosse chiaramente implicito nell’insistenza su quella concettualità.
Ed è un aspetto sul quale davvero bisognerebbe insistere quando si tratta di pensare alla riappropriazione della nostra differenza. Al bisogno di ritrovarci sardi nel pieno orizzonte dei valori all’interno dei quali ci siamo formati.

E allora non è uno scherzo il programma di iRS, per quanto può riguardare il rinnovamento o una progettualità di rifondazione della coscienza dei sardi.
Non è per niente una cosa laterale, leggera, improducente, pleonastica. È una cosa di primaria importanza.
E pensate che tutto discende proprio dal quel punto primo che stavamo chiamando indipendenza.
Grazie.

12/05/2006

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Isgàrrica s’artìculu: 2006-05-12 – La differenza e l’indipendenza

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