In vista del decisivo appuntamento elettorale delle prossime elezioni per il rinnovo del Consiglio Regionale della Sardegna, previste per la primavera del 2009, abbiamo intervistato Gavino Sale, leader del movimento indipendentista “iRS-indipendèntzia Repùbrica de Sardigna”. Gavino Sale è stato eletto nel 2005 nel consiglio provinciale di Sassari segnando il primo ingresso in una significativa Istituzione locale di un rappresentante ufficiale dell’indipendentismo sardo.
Gavino Sale, leader dell’iRS: “la realtà di un sogno”
L’indipendentismo alle Regionali del 2009.
A dispetto della sua crescente popolarità iRS è l’unica formazione politica sarda a non essersi presentata alle elezioni del 13 e 14 aprile. Delle ragioni di questa scelta e della prospettiva politica del movimento indipendentista in vista delle regionali del 2009 parliamo con il suo leader Gavino Sale.
«I motivi per i quali iRS si è tenuta fuori dalle politiche sono molteplici. Il primo è che noi abbiamo i nostri ritmi e siamo padroni del nostro tempo, non vogliamo che nessuno ci imponga appuntamenti politici che non sono all’interno delle nostre strategie. Il secondo è che si fiutava da tempo, e soprattutto dopo la decisione di Veltroni di correre da solo, una grossa tempesta all’orizzonte, che puntualmente si è poi verificata, lasciando sul campo morti e feriti. Il terzo è che lo ritenevamo uno spreco di energie, di finanze, un dispendio di donne e uomini e di idee in una partita in cui praticamente era impossibile piazzare qualche eletto. Noi non crediamo nei colpi di fortuna, ma nel lavoro costante e coerente verso la costruzione di una coscienza nazionale sarda. Il nostro campo di azione rimane la Sardegna. Questi in sintesi alcuni dei motivi. In più, nel momento in cui questa tempesta è passata, nel momento in cui ciascuno, nessuno escluso, si leccava le ferite, iRS apriva la campagna elettorale per le regionali 2009. Questo 2009 per noi ha una valenza quasi magica, come un segnale, come una cabala storico-politica. Nel 1409 la Nazione Sardisca coi simboli dell’Arborea perse la sua libertà nella battaglia di Sanluri, in “su bruncu e sa battalla” contro i catalano-aragonesi, costata migliaia di morti. Esattamente 600 anni dopo, e cioè nel 2009, inizieremo la riconquista delle nostre terre, della nostra dignità, della nostra libertà. Questa è una visione che ci affascina, è quasi un segnale del tempo misterioso. La nostra campagna elettorale inizia dove finisce quella degli “altri”, infatti un nostro slogan è stato “lasciamoli perdere”, e in effetti pochissimi hanno vinto. I sardi che sono stati eletti sicuramente non influiranno in forme positive per la Sardegna, finora la presenza di sardi nelle istituzioni italiane ha anzi danneggiato la terra che li ha eletti: non dimentichiamo che due membri del vecchio governo, Arturo Parisi ministro della difesa e il sottosegretario Casula, hanno permesso di bombardare giorno e notte le terre di Sardegna, nello specifico a Quirra e a Capo Teulada, per cui l’assenza di ministri e sottosegretari sardi in questo governo di cui tutti si lamentano non ci fa alcun danno: se non altro non abbiamo dei complici diretti in un’ipotesi di saccheggio».
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Un passo indietro: voi siete una formazione dichiaratamente indipendentista e che viene vista con grande attenzione e simpatia. Il vostro appuntamento elettorale nelle amministrative del 2005 è stato contraddistinto da una affermazione, soprattutto nel nord Sardegna. Un indiscutibile successo. E infatti Lei è stato eletto in Consiglio Provinciale a Sassari. Ma l’indipendentismo ha ancora un senso con l’Unione Europea? Come valuta, ad esempio, il recente caso del Kosovo?
«Il fatto che siamo simpatici da un certo punto di vista fa piacere, da un altro infastidisce. Rimanere a livello di simpatia ci interessa relativamente. Sicuramente apre una porta: invece di creare ostilità c’è favore, attenzione, complicità. Ma il passaggio successivo, quello che a noi interessa, ed è su questo che stiamo lavorando, è fare il salto verso la piena credibilità, nostra ma soprattutto del progetto della costruzione della Repubblica Sarda Indipendente da raggiungere in forme rigorosamente non violente. Io complessivamente ho raccolto diecimila voti: se consideriamo che in Consiglio Provinciale c’è gente eletta con 500 voti questo risultato ci rallegra. Notiamo dei segnali interessanti nella società sarda che sono prova dell’attualità della nostra proposta. I punti all’ordine del giorno dopo le regionali del 2005 erano quelli posti da iRS, il tema dell’indipendenza aveva ottenuto centralità politica e infatti si dibatteva di Costituente, di Consulta, di riscrittura della della nuova Carta Costituzionale sarda, di sovranità. L’ostilità dei partiti italiani in Sardegna prima è le votazioni dopo hanno contribuito a deviare su questi temi, ma l’appuntamento è semplicemente rinviato.
L’affermazione dell’imprenditore Ugo Multineddu rilasciata pochi giorni fa alla stampa locale la dice lunga: dichiararsi indipendentista e amico dell’iRS, dire che in due anni, lasciati liberi, potremmo diventare più ricchi dell’Italia, significa che esiste una fascia di borghesia imprenditoriale sarda, che noi riteniamo l’asse portante dell’economia in Sardegna, che crede in noi e nel progetto. Un altro segnale è che cinquemila aziende agricole sarde chiamino iRS a difenderle dalla complicità che si è creata tra banche e ceto politico. Cinquemila aziende devastate sono la prova del connubio infernale che si è creato. L’obiettivo di favorire la nascita di una classe imprenditoriale nel settore agricolo è fallito. Anzi bisogna chiedersi se su 100 aziende pignorate in Italia 90 sono in Sardegna se questa non sia una strana anomalia. Noi spingiamo la UE e i tribunali ad indagare, carte alla mano, su questa anomalia. Segnali arrivano anche dalla Sinistra: componenti importanti chiedono incontri e consulti con iRS.
Quanto all’indipendentismo, rileviamo che l’Unione Europea ha un grosso deficit di democrazia, benché si impegni a esportarla a suon di bombe insieme agli Stati Uniti. Quaranta milioni di abitanti nell’UE rivendicano il diritto all’auto-determinazione. L’UE deve tenerne conto perché si tratta del 20% della popolazione: mi riferisco ai sardi, ai corsi, ai baschi, ai catalani, agli scozzesi, agli irlandesi e ai curdi. La Turchia sta per entrare in Europa e abbiamo una grossa fetta del Kurdistan occupato “manu militari”: è un problema che merita considerazione e soluzione. Un’altra osservazione che avvalora l’attualità dell’ipotesi indipendentista è il caso di Malta: un territorio con appena trecentomila abitanti che però ha una sua dignità all’interno dell’UE. E’ utile fare anche l’esempio dell’Irlanda, che si trova ai vertici dell’UE in termini di sviluppo, con un PIL intorno all’8.2%, con gli stipendi degli più alti in Europa. L’Irlanda è un’isola come la Sardegna, ma è indipendente. La parte nord dell’Irlanda ancora sotto dominio inglese (Ulster) è invece una delle regioni più depresse d’Europa. Dobbiamo chiederci quale Irlanda vogliamo essere. Tutte le nazioni che si liberano e diventano indipendenti vivono un periodo di prosperità economica, intellettuale, sociale, artistica. All’interno dell’Europa in pochi anni sono nati in maniera non violenta una decina di nuovi Stati: le ragioni dell’indipendentismo non sono né anacronistiche né scomparse. Il caso Kosovo è a parte, è una forzatura. Le ipotesi violente, l’abbiamo visto, non pagano. Noi vogliamo percorrere un’altra strada, come la Catalogna e la Scozia, che si avvicinano a un referendum per l’autodeterminazione. Un indipendentismo graduale ma inesorabile».
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In Italia su una linea apparentemente simile troviamo il fenomeno Lega, che però ha valori politici completamente diversi: un “fare da soli” in cui si rivendica di non avere bisogno di solidarietà, di sostegno, una sorta di “indipendentismo dei ricchi”.
«La prima Lega dieci anni fa era indipendentista. Quell’opzione oggi non esiste più. Il fenomeno Lega serve a una ristrutturazione in termini “federalistici” dello stato, un federalismo a senso unico. Ma c’è un paradosso che vorrei evidenziare: mentre la Lega riesce ad inventarsi e a costruire una nazione inesistente, in parallelo l’autonomismo ed il sardismo riescono a distruggere una nazione già esistente e a bloccare sul nascere le istanze di indipendenza che il popolo nel primo dopoguerra e negli anni ottanta rivendicava; la classe dirigente autonomista e sardista stroncava sul nascere queste pulsioni sino ad arrivare a processi aberranti come autorazzismo, desardizzazione, deculturazione e integrazione totale verso la nazione e la cultura dominante, facendo diventare questa terra concettualmente e di fatto una discarica e un poligono di tiro.
La Sardegna per secoli è stata indipendente. Ma la storia scritta dai Savoiardi e da tutti gli altri che vi avevano interesse ci ha negato la possibilità di conoscere la nostra storia. Non c’è relazione tra ipotesi Leghista e ipotesi indipendentista sarda: non c’è traccia nell’iRS di razzismo, di xenofobia, tanto meno di nazionalismo. Quindi il parallelismo con la Lega noi non lo accettiamo. iRS è una realtà del tutto originale. iRS nasce con un’idea di azione non violenta e soprattutto non basata sul nazionalismo. Un nostro impegno è quello di polverizzare il cliché di un indipendentismo violento, ancorato a tesi del passato, a una immagine folklorica e perciò non più attuale. L’indipendentismo dell’iRS è apertura al mondo, è un atteggiamento dinamico, critico verso noi stessi e verso le forme di dominio che ci bloccano e ci attanagliano. E’ apertura totale a livello economico, filosofico, concettuale, artistico, musicale. La sfida che vogliamo portare non è solo all’interno della Sardegna, ma nei confronti del mondo intero. C’è l’idea di creare un’agorà mondiale che coinvolga le migliori sensibilità e le migliori intelligenze, che non sono solo sarde, ma le troviamo in tutti i popoli, quello italiano, francese, quello sudamericano, eccetera. Un’agorà mondiale che sfidi le concettualità grigie di questo mondo, che rimetta in moto la nostra storia con nuovi impulsi verso una nostra esistenza libera. Liberare il nostro popolo vuol dire liberare una frazione del pianeta; quando difendiamo la Sardegna stiamo difendendo la Terra e tutti i popoli di questo mondo. E invece oggi siamo chiusi: nell’idea di un vecchio autonomismo, di un vecchio sardismo, che pur nel rispetto degli uomini che in esso militano noi non condividiamo perché interiorizza una resa a qualche alterità di tipo statuale, e soprattutto mostrano una forma mentis il cui risultato è disastroso, dove il piagnisteo è regola, il fatalismo diventa sottomissione e l’integrazione diventa catena. Chiedere a qualcuno di risolvere i nostri problemi e aspettare una sintesi che arrivi dall’esterno non è nel nostro agire. Noi ribaltiamo la situazione: iniziamo a fare, a costruire, a tracciare una nuova traiettoria di senso. Noi non chiediamo. Costruiamo, pian piano, la nostra coscienza nazionale, strutturiamo la nostra nazione, e quando recideremo ufficialmente i fili con lo Stato italiano non ce ne accorgeremo nemmeno».
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Questa impostazione di sovranità trova riscontro negli anni della giunta Soru?
«Con Soru abbiamo avuto rapporti leali, costruttivi ma in un certo senso paralleli e qualche volta radicalmente divergenti. Alcune battaglie ci hanno visto insieme: la difesa ambientale, la tutela delle coste, la liberazione dalle servitù militari. Il problema era ed è che ogni sua decisione si misura con il potere di Roma. L’ultima prova di questo vincolo, umiliante per lui, è la restituzione della tassa sul lusso. Ma Soru non è indipendentista e non posso fargliene nessuna colpa. C’è sempre stato il limite, strutturale e concettuale, tra la nazione sarda e lo stato italiano. Come Soru tutta la Sinistra ha questo limite. Non c’è dubbio che abbia portato una ventata di novità: la politica sarda era ferma da qualche decennio, non si può negare che Soru abbia determinato una scossa in Sardegna. Che la destra tenti di bloccarlo è ovvio, ma sono i suoi stessi alleati a fargli pagare il prezzo del cambiamento che ha portato. Era prevedibile, anche se lui non lo ha previsto. Noi seguiamo con attenzione la crisi della Sinistra. Gramsci scriveva che la questione sarda era una questione nazionale, che interessava la nazione italiana e quella sarda, che non poteva essere ascritta nell’alveo della questione meridionale. La Sardegna, diceva Gramsci, è una nazione. Paradossalmente uno dei cosiddetti “padri della nazione sarda”, Emilio Lussu, negava questa ipotesi e si accontentava dell’autonomismo. Le ipotesi sardiste sono dunque in antitesi con quelle indipendentiste. Era più indipendentista Gramsci di Lussu. La Sinistra sarda non deve stare in attesa degli input di Roma. Il partito comunista e i suoi diretti eredi si sono estinti in molti paesi europei e anche qui sembrano destinati al suicidio. La capacità di sintesi deve partire da questa terra e prendere in considerazione nuove concettualità che rispettino esigenze storiche, culturali, linguistiche che iRs ha contribuito a far emergere. E potremmo accettare di buon grado un passo tattico verso il riconoscimento dello status di nazione, momentaneamente, all’interno dello stato italiano, un passo avanti rispetto al defunto concetto di autonomia; ma, strategicamente, verso la Repubblica Sarda Indipendente».
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Un percorso graduale che dovrà quindi coinvolgere le nuove generazioni. Ritiene possibile che i giovani si interessino alla causa di iRS?
«Dipende dal modo in cui si parla con loro, bisogna lasciarsi alle spalle stereotipi fuori luogo. La sardità non deve essere un abito logoro. Cito la frase di Jean-Marie Tjibau, leader indipendentista del popolo kanak: “la nostra identità è davanti a noi”. Sono proprio i giovani a costituire la colonna portante del nostro movimento. Il 90% dei nostri iscritti ha meno di trent’anni. I giovani si ritrovano nell’iRS perché offre un’immagine dinamica della vita, proiettata verso il futuro. I giovani sanno che iRS insieme con loro è un distillatore concettuale e pratico di passato e futuro da dove sgorgano gocce di un distillato inebriante, dove l’ebbrezza della costruzione del proprio avvenire genera passione, emozione, senso e piacere alla vita».
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La politica, oltre che ideale, è anche proposta concreta di risoluzione di problemi. I vostri punti essenziali nel prossimo futuro quali saranno? Li avete già delineati?
«L’abc della politica insegna a non scoprire le carte ma alcuni elementi possono essere evidenziati. Avere fondamenta solide per il proprio progetto è il primo passo, e poi deve esserci coerenza tra teoria e prassi. Il dramma più grande della Sardegna è la produzione di non-senso. Da noi sembra che fare delle scelte che non hanno nessun senso sia la regola: per esempio l’installazione di pale eoliche con contratti che prevedono briciole economiche per le comunità locali pari all’1,2% mentre le multinazionali si portano via il 98% della ricchezza generata. Ha un senso? Roba da denunciarle nei tribunali per circonvenzione di incapace! Un sindaco che firma un contratto del genere o è un incapace o è animato da malafede. Oppure il caso dei fumi di acciaieria: rifiuti per il resto d’Europa, diventano materie prime per noi! Sostanze tossiche, che nel meridione d’Italia tratta la malavita organizzata, in Sardegna sono autorizzate per legge. O ancora, mentre le peggiori aziende inquinanti vengono rifiutate in diverse parti del mondo qui sono accettate allegramente e definite poli di eccellenza, e qui c’è una grossa responsabilità anche dei sindacati che per pochi posti di lavoro compromettono un territorio. Paradossalmente non si spinge l’industria del vetro e pure ci sarebbero le cave di sabbia silicea per farla. Il vetro noi lo buttiamo o lo regaliamo all’Italia. Stesso discorso per caolino e argilla. Noi dobbiamo capire bene quali sono gli interessi della Sardegna e quali quelli dei grandi gruppi industriali sponsorizzati dai partiti italiani. Tra un po’ noi dovremmo rinnovare la concessione alla Saras, un esempio di quello che dicevo: cinque anni fa, determinando una crescita di un misero 0,3 del PIL sardo, ci ha fatto uscire dall’Obiettivo 1, causando una perdita di finanziamenti per migliaia di miliardi alle aziende sarde da parte della UE. Questo, al pari dell’inquinamento, è un danno da calcolare. Nel tavolo delle trattative si dovrebbe mettere in evidenza anche questo. I gap negativi di gestione non vengono considerati sufficientemente. Fare impresa in Sardegna rispetto a qualsiasi altro luogo in Europa e in Italia costa mediamente dal 15 al 20% in più, dati questi forniti dalla facoltà di economia dell’Università di Cagliari e dal Crenos. Questo ovviamente a causa dell’insularità. Non possiamo aspettare altri 50 anni affinché gli handicap strutturali di questa regione si appianino, ma interveniamo rapidamente sulla fiscalità: o acquisiamo totalmente sovranità sulla fiscalità, o defiscalizziamo almeno il mercato interno. E visto che siamo in clima di federalismo fiscale trattiamo alla pari una fiscalità specifica per l’isola per equilibrare quei 20 punti negativi di gestione che nessuna impresa al mondo potrebbe sopportare.
Il federalismo fiscale che si profila sarà a vantaggio delle regioni forti. Noi, d’altra parte, facciamo un salto in avanti e pretendiamo che la fiscalità sia in mano alla nazione sarda. Le sorti economiche di una nazione non sono altro che le sorti della propria fiscalità. Sarà una presa di posizione forte, ma noi sentiamo di doverla fare. Crediamo nel modello irlandese, lo vogliamo far nostro, con tutte le eccezioni del caso. Questo è un esempio concreto di una fiscalità riacquisita».
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Nel 2009 gli scenari potrebbero essere i più vari, anche rispetto alla possibilità che Soru venga riconfermato candidato alla Presidenza della Regione. Voi escludete di far parte di una coalizione che abbia almeno come percorso le questioni della sovranità?
«iRS nasce dall’esigenza di fare chiarezza e di uscire dalle nebbie che l’unionismo e l’autonomismo hanno creato. L’esigenza di parlare chiarissimo rispetto alla nascita e alla costruzione della Repubblica Sarda Indipendente. Questi 5 anni di vita del movimento hanno creato aspettative in tutta la società sarda e non possiamo in nessun modo arretrare neanche di un millimetro sulle nuove concettualità che sono emerse e che hanno contaminato in orizzontale tutto il corpo politico sardo. La società sarda oggi è in fermento. Oserei dire che siamo ad un passo da una fase di non ritorno, ovviamente riferito alla presa di coscienza nazionale. Come è successo in altre parti del mondo, dove eventi storici hanno determinato accelerazioni in senso indipendentista. Noi in questo momento stiamo osservando con molta attenzione le convulsioni che avvengono nella società sarda. Chiaro è che attendiamo segnali di passi in avanti da parte di chi attentamente segue gli avvenimenti storici attuali e non potremo negare nessuna interlocuzione verso chi esprima coerentemente maturità e acquisizione verso traiettorie politiche che iRS in questo breve ma intenso periodo di tempo della sua esistenza ha sollecitato. Chi vuol farsi sentire batta un colpo».
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In che senso storicamente si andrebbe verso l’indipendenza? Marx, per esempio, fondava la pretesa di comprendere la direzione degli eventi su una filosofia della storia ben precisa. In che senso la “nazione sarda” dovrebbe andare nella direzione della sovranità o dell’indipendenza?
A cura di Giovanni Spada e Maria Francesca Fantato
Per saperne di più visita il sito www.irs.sr/domo
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Isgàrrica s’artìculu: 2008-06-10 – Ventirighe intervista Gavino Sale
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