di Omar Onnis
È sconsolante scorrere la cronaca quotidiana delle manifestazioni di questa o quella categoria di cittadini, di lavoratori, di esseri umani, che occupa le pagine dei giornali e i servizi dei tg sardi.
Gli incidenti di ieri, in occasione dell’ennesima protesta del MPS, non sono un episodio casuale o contingente. La Sardegna sta toccando con mano il fallimento storico dell’autonomia. Ma sta anche sperimentando gli effetti di una totale assenza di politica, di programmazione e di assunzione di responsabilità da parte di una classe dominante che mai come in questo periodo sarebbe sbagliato definire dirigente.
Non c’è parte o categoria della nostra società che possa dirsi soddisfatta, che possa coltivare ragionevolmente aspettative crescenti per il futuro. La politica è assente. Non c’è una pianificazione in alcun settore della nostra vita associata. Peggio ancora, manca del tutto la percezione stessa di una collettività cui rendere conto delle proprie scelte.
Tuttavia non è più nemmeno il tempo della delega, della ricerca delle colpe altrui. I sardi non possono più aspettarsi sostegno e tutela dall’alto o da fuori. La protesta e la manifestazione hanno un senso se inserite in una prospettiva più ampia, che non si limiti alle rivendicazioni corporative, ma cerchi di agire sull’intera scena politica, producendo solidarietà, consenso, condivisione.
Possibile che i cassintegrati, i disoccupati dei vari settori, i ricercatori, gli studenti, i pastori e tutti gli altri nostri fratelli non si rendano conto che non è più il momento di pensare ognuno per sé e Dio per tutti? Limitarsi alla protesta, magari anche violenta, comporta il rischio evidente di essere strumentalizzati. E di sicuro non serve a nulla di concreto.
È come se noi stessi fornissimo le formule per il sortilegio che ci avvince in questa sindrome da minorati della storia. Incapaci a provvedere a noi stessi, ci limitiamo a chiedere, a volte facendo i capricci come i bambini, qualche gesto di condiscendenza e di attenzione.
Solo alzando lo sguardo al di sopra delle meschinità quotidiane possiamo vedere un orizzonte più limpido. Un orizzonte nostro, al centro del quale ci siamo noi, insieme. C’è bisogno di una presa di coscienza collettiva, nazionale, che affronti i problemi strutturali che ci portiamo appresso da decenni, se non da secoli, secondo una prospettiva radicalmente diversa. Una prospettiva che veda noi come soggetti storici, portatori non solo di interessi e bisogni, ma anche degli strumenti atti a soddisfarli.
Cento anni fa la situazione era analoga a quella di oggi. Sparavano proiettili sulla folla, allora, non lacrimogeni. Ma non cambiava molto il significato di quelle risposte del potere costituito alle proteste dei cittadini. Morti a Buggerru, morti nelle manifestazioni di Cagliari e dintorni per il prezzo del pane… E la parola d’ordine era “emancipazione”. Duecento anni fa o poco più, i metodi erano ancora peggiori, contro i fautori della “Sarda Rivoluzione”. Allora “sas aeras minettaiant temporale”. Il cielo minacciava tempesta. E oggi ci risiamo. La lezione della storia deve pur servire.
Noi di iRS per principio e per scelta politica rifiutiamo le rivendicazioni col cappello in mano, i piagnistei presso il padrone di turno. Così come rifiutiamo la violenza, da qualsiasi parte provenga. Ci sentiamo vicini a tutti coloro che sono in difficoltà, perché ci siamo noi in mezzo a loro. Non siamo un corpo estraneo, come sempre più chiaramente appaiono i detentori del potere politico e dei privilegi economici in Sardegna. Tutti noi siamo pastori, siamo precari, siamo ricercatori, siamo disoccupati, siamo immigrati.
Per questo invitiamo tutti, a cominciare dai pastori, a produrre insieme a noi proposte che esulino dal quotidiano, che vadano al nocciolo del problema, senza accomodamenti, senza facili scorciatoie. Non è solo una soluzione possibile, è l’unica soluzione. Emancipazione sociale e emancipazione politica vanno di pari passo. Uniamoci e prendiamo in mano la nostra sorte.
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