La tragedia nel sud est asiatico. Solidarietà a distanza

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di Franciscu Sedda

Quale insensatezza più grande della natura, la terra – la “Madre” – che si rivolta contro i suoi figli causando centinaia di migliaia di morti e lasciando noi vivi sgomenti e (quasi) senza parole? A quale senso aggrapparsi, al di là del sospetto che questa madre si stia vendicando del nostro poco rispetto verso di lei?
Ha detto un filosofo che nell’insensatezza del dolore c’è solo un taglio, una ferita aperta. Questo bruciore lacerante ha un solo grande vantaggio: apre i nostri corpi alla condivisione di un mondo, ad un sentimento in comune. Come se avessimo bisogno, a volte, della tragedia per scuoterci dal torpore della vita quotidiana ed elevarci sopra le nostre piccole (a volte neanche tanto) miserie individuali. Come se l’irrompere di un dolore imprevedibile, che coinvolge noi e tanti altri nello stesso momento, servisse e sentirci parte di qualcosa di più ampio e più importante.
Se così fosse ne conseguirebbe anche che più esteso e più generalizzato è il dolore e tanto più grande sarà la comunità che attorno ad esso potrebbe crearsi. È forse per questo che la tragedia del Sud Est asiatico è stata facilmente definita come “globale”, perché il suo dolore ha viaggiato lungo le reti che sempre di più collegano il mondo e rendono le sue parti interdipendenti: reti che trasportano viaggiatori e turisti, reti che veicolano immagini e informazioni, reti che spostano donne e uomini che vanno via da casa per sopravvivere e per dar da vivere a chi non ha potuto seguirli.
Ma qui iniziano i problemi, e il termine “globale” è uno di questi. Dietro la facilità con cui ormai lo si pronuncia si annida infatti, più pericoloso, il sentimento di facilità con cui ci pare di comprendere e partecipare a ciò che ci accade intorno: come se il mondo, in particolare grazie ai mezzi di comunicazione, fosse diventato trasparente. Del resto, chi oggi non si riempie la bocca del suo essere “cittadino del mondo”? E come non cascare nella trappola nel momento in cui tutti dicono che il mondo è piccolo e omologato come un villaggio uniforme e le regole paesane sembrano quelle del cosiddetto Occidente? Non è così: il mondo è ancora pieno di diversità – per fortuna – e questo significa anche che capire gli altri e la loro vita non è così facile – il che non è sempre un bene ma è comunque utile e necessario per mantenere viva la libertà. Del resto la nostra ignoranza è sempre tanta: cosa conosciamo veramente di chi sta “là”, oltre quei pochi stereotipi ripetuti dai media di massa? Quanto ci sforziamo di saperne di più e diversamente?
Si dirà però che se il sapere è parziale il dolore, almeno quello, è unico e collettivo. Eh sì, sarebbe bello celebrare una volta tanto un’umanità riconciliata con se stessa. Ma indifferenza, interessi e speculazioni serpeggiano fra stati, istituzioni, imprese e singoli. Se ne sono sentite molte di questi tempi e meriterebbe parlarne. Ma ora ci interessano di più le sfumature. Come la solidarietà, che si esercita sotto tante forme e partendo da presupposti diversi. C’è una solidarietà politicamente corretta che è quella che si sente spesso di questi giorni, sugli autobus e nei talkshow: è la solidarietà “a distanza”, mossa da un sentimento di pietà, quella che si attiva sempre una tantum e con un sottinteso: “purché se ne stiano a casa loro”.
Per fortuna c’è anche tanta generosità sincera, senza la quale del resto questo mondo non andrebbe avanti. È quella di chi compatisce l’altro lontano come se fosse vicino: che gli sta e lo sente vicino. Compatire vuol dire “patire insieme”, in modo profondo e duraturo, e non è facile. Quando scatta, questa consonanza è la molla per un impegno che non finisce con lo scomparire – come succederà per le normali logiche dei media – delle immagini della tragedia dagli schermi.

14/01/2005

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Isgàrrica s’artìculu: 2005-01-14 – La tragedia nel sud est asiatico. Solidarietà a distanza

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