di Franciscu Sedda
La realtà è sempre istruttiva. Se qualcuno infatti avesse cercato di nascondersi la qualità dei rapporti fra la Sardegna e lo Stato gli ultimi mesi hanno dato a tutti piccoli ma chiari motivi per porsi almeno dei dubbi. Soprattutto a chi piace dire che la Sardegna è un soggetto che ha la sua sovranità e che ha già potenzialità e statuto di soggetto libero, che starebbe semplicemente ad una buona classe dirigente mettere a frutto: costoro dovrebbero quantomeno concludere che questo soggetto è “a sovranità limitata”, se non peggio.
Diciamo “la Sardegna” e non il popolo sardo perché per fare un popolo non basta essere nati o vivere tutti (e intendiamo proprio tutti, di qualunque origine e provenienza) nello stesso posto, così come diciamo Sardegna e non “governo sardo” perché, a turno, questo destino di limitazione è toccato ad ognuno, compreso chi oggi sta all’opposizione, chi lotta fuori dal palazzo, alla società civile e alle associazioni che si battono su temi specifici, alle comunità che vorrebbero gestire il loro territorio.
Questa trasversalità dovrebbe dunque indurci a spostare lo sguardo dalla sostanza alla forma: ovvero, dal merito delle singole questioni alle relazioni, ai rapporti di forza e di fedeltà, che sono in gioco e che stanno al fondo di ogni questione specifica. Facendolo si noterebbe che il vero problema nelle relazioni fra la Sardegna e lo Stato non è quello di decidere una determinata cosa su di un determinato ambito, ma è il problema generale dell’avere o meno il potere di “decidere di decidere”, a prescindere da ciò che poi concretamente si decide. Questione radicale dunque perché fa tutt’uno con la questione della libertà che è, nei suoi minimi termini, la “possibilità di fare”.
La limitazione odierna delle nostre possibilità di scelta svela dunque che ciò che lo Stato vuole e tollera è che si rivendichi, che si chieda a lui – accettando così il suo potere – di darci ciò che ci deve, ci ha promesso o ci ha garantito. Il che concorda in pieno con la logica autonomistico-sardista degli ultimi 50 anni: quella del “balente” solitario e narciso che si indigna nel parlamento italiano o delle continue rimostranze e proteste collettive a Roma. Quasi tutta la classe dirigente attuale, al governo o all’opposizione, è pienamente a suo agio in questo ruolo: rivolta all’esterno, per convinzione o per interessi, e incapace di identificarsi pienamente con la Sardegna salva con la rivendicazione uno spazio di movimento e di compromesso.
Ciò che lo Stato non tollera è che si affermi, ovvero che una collettività si prenda ciò che ritiene giusto. E ciò perché il “giusto” non è patteggiabile economicamente come l'”utile”.
Davanti a tutto ciò molti sardi cominciano a chiedersi dunque “se” effettivamente abbiamo potere di decisione sul nostro futuro. E molti stanno scoprendo cos’è in effetti l’autonomia della Sardegna, e fin dove può arrivare: o meglio, fin da dove deve arrestarsi.
Lo si ripete sempre: autonomia in greco fa auto-nomos e significa suppergiù “darsi la propria legge”. Ma il punto è che “darsi la propria legge” è una prerogativa che appartiene ad un essere che ha quel minimo di autocoscienza e amor proprio che lo fa esistere e lo porta a poter (ma soprattutto “voler”) prendere e applicare da sé le decisioni che ritiene consone (fatto salvo il principio di non ledere l’umanità, e la libertà degli altri).
È evidente allora che l’auto-nomos che servirebbe a noi sardi, di cui si parla, che tanto si invoca (ma solo strumentalmente, e per questo senza successo) è qualcosa che non spetta ad una semplice “Regione Autonoma”.
Comunque, siccome a tutti piace sentirsi liberi e a nessuno si può dire (pena ferirne l’inutile orgoglio) che non ha libertà, continuiamo pure a dircelo: siamo liberi. In libertà vigilata.
08/02/2005
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Isgàrrica s’artìculu: 2005-02-08 – Il rapporto Stato-Sardegna. In libertà vigilata
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