Il politologo Parag Khanna nel suo libro “I tre Imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI secolo” uscito nel 2009 sosteneva che ‹‹la combinazione fra ricchezza petrolifera, mass media e condivisione dei medesimi risentimenti, insieme alla consapevolezza dell’arbitrarietà delle frontiere imposte dagli europei, sta trasformando il panorama politico arabo all’insegna di un’opinione pubblica notevolmente coerente che si oppone alla politica estera americana e contesta la legittimità dei propri leader non elettivi. La giovane generazione araba fa circolare queste inclinazioni con programmi di scambio per gli studenti, riunioni e associazioni, e con la blogsfera››.
Queste sue considerazioni forniscono una prima chiave di lettura per capire cosa stia accadendo nel mondo arabo. Larry Diamond, fondatore del Journal of Democracy, in un suo articolo dal titolo “Perché non esistono democrazie arabe?” afferma che ciò che regge l’autoritarismo arabo è la rendita petrolifera in quanto essa consente di far funzionare lo stato, costruire le opere pubbliche e fornire servizi ai cittadini, senza chiedere di pagare loro tributi e quindi senza attivare la dialettica che è essenziale per far nascere e vivere una democrazia.
Per Diamond l’assenza di democrazia non sarebbe da imputare all’Islam, di fatto nel mondo esistono paesi musulmani in cui essa è presente come la Turchia e la Malesia, ma a quella commistione tra burocrazia, concentrazione di risorse e corruzione che tiene lontano il cittadino dall’avere la forza di poter competere nella scena politica attraverso la formazione di opposizioni. La tesi di Diamond ha il merito di sfatare il mito dell’impossibilità esistenziale tra democrazia e Islam, focalizzando il tema sul versante materiale della ricchezza petrolifera, ma non tutti i regimi arabi posseggono ingenti risorse petrolifere, ne è vera la tesi che petrolio e autoritarismo possono essere meccanicamente due facce della stessa medaglia. La Norvegia, la cui economia dipende molto dall’esportazione di petrolio, è una solida democrazia.
Quello che sta accadendo oggi nel mondo arabo è originato da diverse variabili che sia Khanna che Diamond colgono: diseguaglianze nella distribuzione delle risorse, crescita di un’opinione pubblica formatasi grazie ai social network e l’assenza di opportunità di lavoro per i giovani. La combinazione di questi fattori ha portato alla luce la forza di quei movimenti popolari che stanno sconvolgendo gli equilibri nel mondo arabo. La richiesta di democrazia e sviluppo guida il senso della primavera araba. Il rapporto tra democrazia, petrolio e Islam offre quindi diversi spunti di analisi su questioni dirimenti per la politica internazionale e per la geosfera mediterranea.
In Egitto e Tunisia i rispettivi dittatori, Mubarak e Ben Alì, sono stati cacciati da vere e proprie insurrezioni popolari. La struttura sociale di questi due paesi, unita al ruolo istituzionale ricoperto dell’esercito, hanno permesso che le sollevazioni non si trasformassero in un bagno di sangue. In queste due realtà le forze armate hanno la funzione di essere i garanti della fase di transizione verso un nuovo sistema politico. Altri paesi arabi sono in tumulto. Dall’Oman al Barhein. Arabia Saudita e Iran osservano da lontano l’evolversi della situazione con l’intenzione di influenzare a loro favore gli equilibri politici regionali.
Nel caso egiziano e tunisino la “dottrina Obama” sulla primavera araba ha fino ad ora funzionato: niente uso della violenza, rispetto dei diritti umani universali e sostegno alle istanze di riforma che vengono dalla popolazione. La Libia rimane il caso più difficile. Ormai le rivolte anti Gheddaffi si sono trasformate in una guerra civile con la concreta possibilità che la divisione per tribù del paese porti la Libia a diventare un mix tra la Somalia e i Balcani. Ad oggi il paese è diviso in due zone rappresentate da due governi diversi: uno a Tripoli e l’altro a Bengasi. Lo scenario è complesso. Problematico da gestire.
Le notizie dei bombardamenti del regime libico sulla popolazione civile testimoniano del grado di violenza raggiunta e della conseguente necessità di porre fine a tali crimini. Tale orizzonte mette la comunità internazionale di fronte all’eterno dilemma dell’intervento umanitario posizionando Obama nella condizione di dover intervenire, proprio per dimostrate che se un regime adopera la violenza contro i suoi cittadini è destinato a subire pesanti conseguenze. La Libia sarà un nuovo Kosovo? Con quali conseguenze? E il dopo come verrà gestito?
Ai tempi della seconda Guerra del Golfo fui d’accordo con Ralf Dahrendorf quando affermò che nella transizione da una dittatura fortemente ideologica come quella di Saddam ad un sistema più liberale, la strada da percorrere passa necessariamente attraverso una “valle di lacrime”. Infatti una volta mandato via il dittatore il cambiamento costituzionale richiede poco tempo e i suoi effetti sono immediati, mentre la politica ordinaria ha tempi lunghi: i principi enunciati in una costituzione possono essere di quanto più avanzato una politica costituzionale possa richiedere, ma renderli poi reali è un’operazione molto complessa e di lungo periodo.
Questo vuol dire che potranno vedersi risultati positivi solo dopo un lungo periodo di tempo, in cui sia stata attuata una politica di effettiva tolleranza e avviato un solido sistema di sviluppo economico, e si sia fatto ogni sforzo per instaurare uno stato di diritto sorretto da un apparato giudiziario imparziale e incorruttibile, nella cui cornice siano garantiti il rispetto dei diritti fondamentali civili, politici e sociali.
L’Onu, l’Unione Europea e la NATO, la Lega Araba e l’Unione Africana, una volta trovato un accordo sulle modalità di intervento in Libia, saranno pronte a rendere effettiva una politica costituzionale in Medio Oriente? Con quali effetti nel resto della regione? Fareed Zakaria sostiene che non sempre la democrazia porti con se il seme della libertà. Libere elezioni possono portare al governo culture politiche lontane da qualsiasi principio di convivenza civile.
Amitai Etzioni, in un articolo apparso sull’International Herald Tribune, cita uno studio condotto dal Carneige Endowment for International Peace, in cui viene dimostrato che nei 18 casi in cui si è verificato un cambio di regime con la forza, ed in cui sono state coinvolte le truppe USA, solo 5 volte si è arrivati ad instaurare un processo democratico virtuoso. Di questi, tre riguardano Giappone ( che rimane un caso particolare di democrazia ), Italia e Germania, mentre i restanti due, ovvero Panama e Granada, attualmente non possono essere certo definiti regimi pienamente democratici. Le difficoltà trovate dagli Stati Uniti e da i suoi alleati nel democratizzare l’Iraq e l’Afghanistan, sono solo gli ultimi esempi di una lunga lista di fallimenti che coinvolgono paesi come Bosnia, Cambogia, Repubblica Dominicana, Kosovo, Somalia, Vietnam del Sud e Cuba.
Le incognite sono tante e la mia sensazione è che per ora i regime change in Tunisia e Egitto siano ancora lontani dall’instaurare una effettiva democrazia: in questo momento è l’esercito a garantire la stabilità. La certezza invece è una: l’Unione Europea deve sostenere i processi di democratizzazione in atto con aiuti finanziari e sostegno diplomatico. Un Mediterraneo libero da dittature è oggi uno scenario possibile da poter realizzare. Le incertezze su come raggiungere un tale risultato sono molte e gli interessi economici in gioco sono altissimi. Il prezzo del petrolio detta l’agenda politica di molti governi.
Il 1989 fu una data storica per il mondo. La speranza è che sia lo stesso per il 2011. Sarebbe rendere giustizia a tutti quei giovani arabi che stanno perdendo la vita per una parola che in sé racchiude il significato dell’ esistenza umana: la libertà. Abbiamo il dovere di aiutare questi popoli nella loro lotta per la democrazia. Affinché il Mediterraneo non sia più il mare dei barconi che affondano con il loro carico di sogni e vite umane ma un luogo in cui ci si possa dare serenamente la mano sentendosi tutti a casa propria.
Nello Cardenia – Responsabile Politico iRS Tàtari