I microcosmi dell’identità

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La civiltà sarda ancestrale, storicamente, si definisce come nettamente anti – urbana, nella  sua cosciente opzione insediativa di sa ‘idda, il paese, il piccolo centro.  Il tessuto abitativo sardo, costituito da comunità di modeste dimensioni demografiche, non è da interpretarsi, nella sua accezione originaria, come risultante obbligata dell’insularità, come esito forzato del confinamento spaziale di un popolo esiguo, falcidiato da guerre ed epidemie croniche.

Se è innegabile che questi ultimi fattori, unitamente alla più recente emigrazione, hanno contribuito, nella dinamica storica, ad alterare negativamente gli equilibri e gli assetti residenziali della nostra etnia, è altrettanto vero che nulla ci dicono circa la matrice atavica, la radice profonda di una tale configurazione demica.  Quali sono pertanto le ragioni arcane che supportano la razionalità frammentata e contenuta dell’ antropizzazione sarda?

Sono portato a credere all’esistenza di un foedus, di un patto primordiale condiviso dalle genti di Sardegna, nutrito e cresciuto all’ombra del megalitismo nuragico e giunto, stanco e sofferente, fino a noi. Il villaggio pastorale e agricolo è la premessa protostorica della città come comunemente si ritiene? Queste due modalità di stanziamento umano sono inquadrabili in una progressione contigua e perfezionante? È opportuno, credo, contestualizzare entrambi le questioni.

Se volgessimo lo sguardo alla stragrande maggioranza della civiltà antiche vissute tra la Mezzaluna Fertile ed il bacino del Mediterraneo saremo indotti a rispondere positivamente ad entrambi i quesiti. Una tale deduzione non è tuttavia estendibile alla stragrande maggioranza del territorio sardo,fortemente plasmato dalla cultura dei nuraghi.

Nella Sardegna matriarcale e megalitica, tra 1500 ed il 600 a.C. , si consolida il principio della pari ordinazione in un contesto geopolitico di tutt’altro segno : tutti gli uomini sono uguali nella diversità delle inclinazioni individuali, spirituali e materiali. In essa non esistono né l’istituto economico dello schiavismo né l’edificio produttivo del latifondo, essendo la terra gestita comunitariamente.  Nel nuraghe, nella sua struttura circolare di semplici pietre, tanto comuni quanto fondamentali è ravvisabile fisicamente l’eterna sfida alle società piramidali di ogni tempo, sazie del sangue di servi e prigionieri. Dal masso all’individuo, dal nuraghe alla socialità.

La logica primigenia della comunità –  villaggio nell’ Isola,  è pertanto, a mio parere, una decisione voluta non subita, figlia di una precisa filosofia politica : il comunitarismo, governo del piccolo centro sul proprio territorio. Fondamento ideale di un tale costrutto intellettuale, figlio del pastoralismo,  è l’individuo, la risoluta tutela della sua dignità di essere umano particolare ed irripetibile.

In sa ‘idda ad ogni persona è riconosciuta la sacralità del proprio spazio vitale : essa si riconosce nel proprio gruppo di riferimento ed è riconosciuta dagli altri. In sa ‘idda sono presenti i mezzi di produzione necessari e sufficienti al sostentamento della collettività. In sa ‘idda si crea, nella costante interazione tra abitanti , un universo conoscitivo e valoriale unico, a se stante. La grande città isolana, spesso sede dei potentati stranieri, è stata lungamente, agli occhi dei nativi, lontana, nemica, rovesciamento della precedente tripartizione concettuale.

Potremo dunque affermare che ogni centro di popolazione sardo rappresentava un mondo in miniatura, uno spaccato in scala ridotta dell’umanità, cadenzato dal suo calendario sacro e profano, dai suoi ritmi vitali tra le gioie ed i dolori dell’esistenza. Dal particolare all’universale, da sa domo a su mundu.

Eccezion fatta per la gestione condivisa della politica economica, alcuni degli aspetti sopraccitati sono tutt’oggi riscontrabili nei paesi della Sardegna contemporanea. I mini creati  dei piccoli borghi hanno garantito quella preziosa trama di varietà di espressioni che ornano l’odierno e compartecipato senso di appartenenza alla Nazione Sarda. Quante parlate colorite, quanti variegati abiti etnici, quanti usi e tradizioni millenarie grazie a sas biddas .

Non è certo scopo della presente analisi fomentare nel cuore e nella mente del lettore un sentimento di nostalgia rifondativa. Non si tratta, dunque, di ripristinare l’armonia dell’età dell’oro perduta quanto dientrare in intimità con la tipicità della civilizzazione in Sardegna traendo, da essa, importanti spunti di riflessione.

La morte esistenziale ed istituzionale dei piccoli centri sardi si profila come meta d’approdo scontata delle recenti politiche governative e regionali.  Il collasso della galassia paesana, lungi dall’essere un mero dato quantitativo, mina i fondamenti stessi del consorzio umano sardo, privandolo del suo strumento prediletto di socializzazione e di identificazione : il villaggio, microcosmo di produzione culturale e materiale.

Una politica territoriale attenta, consapevole delle peculiarità storiche del nostro Popolo, deve tutelare e promuovere la specificità della tipologia di aggregazione connaturata alla nostra  esperienza comune di collettivo nazionale. Una tale sensibilità non può che essere indipendentista.

Antoni Flore – iRS Esecutivo Nazionale

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