E’ di questi giorni la notizia dell’arrivo di un gruppo di operai tedeschi nella centrale termoelettrica E-ON di Fiume Santo. Il fatto ha suscitato negli animi dei lavoratori locali sconcerto e ira, sebbene non sia la prima volta che avviene una cosa del genere. Potrebbe essere legittimo porsi il problema se vivessimo in una società chiusa nei propri confini, dunque non globalizzata. Ma la realtà in cui viviamo ci dice tutt’altro.
Se vogliamo essere del tutto onesti con noi stessi, non possiamo non ricordare le migliaia di operai sardi specializzati che hanno, loro malgrado, abbandonato l’isola in cerca di lavoro nell’industria oltre Tirreno. Non possiamo dimenticarci neanche di coloro che negli anni ‘50 e ‘60 dall’Italia s’insediarono nelle coste sarde per costruire, in seguito al “piano di rinascita”, quelle industrie che oggi sono al collasso e che difficilmente rivedranno tornare a pieno regime la produzione. La città di Porto Torres, ad esempio, ha visto raddoppiare la sua popolazione in soli vent’anni, passando dagli 11.000 del 1960 ai 21.000 del 1980, cosi come è accaduto a quella di Sarroch negli stessi anni. Boom di nascite? No, immigrazioni.
Non dimentichiamoci neanche che le compagnie che operano sul nostro territorio non solo non hanno sede nell’isola, ma non sono nemmeno sarde e spesso neanche europee. La multinazionale E-ON è tedesca, l’ENI è italiana come la Saras, l’Alcoa è americana, la Sardinia Gold Mining, guidata dal signor Ugo Cappellacci, aveva capitali australiani e, infine, la Costa Smeralda (al secolo Monti di Mola) ha recentemente “cambiato padrone” passando dalle mani di Tom Barrack all’emiro del Qatar. Per ragioni di spazio non elenchiamo le innumerevoli società che stanno spianando centinaia di ettari di campi per far posto a pale eoliche e mega-impianti fotovoltaici, ovviamente di capitali sardi neanche l’ombra.
Tutto questo mentre la Sardegna vive una crisi economica dalla quale difficilmente riuscirà ad uscire senza un’accorta politica finanziaria da parte della RAS, sulla quale è evidentemente inutile riporre qualsiasi speranza.
E’ lecito pensare che per ogni sardo che emigra qualcun altro potrebbe immigrare, e che nel mercato internazionale non esistono barriere che escludano né accordi fra stati né, conseguentemente, scambi di manodopera. Pertanto, nel momento in cui accettiamo di svendere il nostro territorio, accettiamo anche il fatto che il padrone di turno sia libero di agire secondo il proprio arbitrio. Laddove ciò implichi il licenziamento di uno o più lavoratori sardi dobbiamo capire che sarà molto difficile far valere un diritto di priorità al lavoro in favore dei sardi stessi: le dinamiche della globalizzazione non contemplano questa possibilità.
E’ paradossale accogliere a braccia aperte questi investitori “istranzos”, che vedono la Sardegna come una “terra di conquista” libera da ogni vincolo, sia paesaggistico che morale, e contemporaneamente chiedere che siano i sardi a lavorare nelle loro imprese: ci troviamo praticamente in un sistema che vede i sardi in assoluta subalternità, in cui è il feudatario a scegliere i propri contadini.
È chiaro che la particolare contingenza del momento storico attuale accentua questo sentimento di ingiustizia che si respira quando vediamo l’impiego di una forza lavoro “esogena” fare “a casa nostra” quello stesso lavoro che avremmo potuto fare noi. Pur lontani da qualsiasi sentimento xenofobo, i lavoratori già esasperati dalla precarietà e dalla mancanza dei posti di lavoro si sentirebbero privati di qualcosa che spetterebbe loro di diritto. Dinamiche di questo tipo non farebbero che alimentare conflitti che, pur dovuti a questioni strettamente economiche, acquisirebbero troppo facilmente una componente etnica e sociale.
Le recenti manifestazioni hanno dimostrato che agli operai sardi non manca la voglia di lavorare, e alcuni di loro hanno già tracciato con ammirevole tenacia la strada che ogni lavoratore sardo deve necessariamente prendere: il cammino passa innanzitutto attraverso il risanamento della propria terra. Nella miniera d’oro di Furtei, ad esempio, grazie ad un protocollo d’intesa, si è raggiunto quell’accordo che consente agli ex lavoratori di essere reintegrati nelle opere di bonifica per la ripulitura del lago di cianuro e arsenico formatosi in seguito alle estrazioni.
Per uscire dall’impasse attuale non solo economico ma anche ecologico, occorre porre in primo piano uno sviluppo di riconversione industriale che guardi ad alternative eco-sostenibili e il più possibile in armonia con la salvaguardia delle risorse ambientali, culturali e sociali che ancora costituiscono un marchio inconfondibile delle nostra terra: sia nell’immaginario collettivo dei sardi che dei visitatori stranieri. È possibile uno sviluppo industriale che non violenti la nostra terra come è stato fatto finora con l’industria pesante, è possibile risanare i danni causati da quest’ultima e nel contempo indirizzare l’industria verso una produzione pulita e virtuosa.
Che gli operai abbiano con forza ribadito l’urgenza di un lavoro e non di assistenzialismi è chiaro anche dopo le manifestazioni dei lavoratori Vinyls, Rockwool, Eurallumina, Legler etc., purtroppo ciò che ancora rimane meno chiaro è quale lavoro debbano e possano fare in futuro, stando alle proposte dei sindacati e della politica attuali.
È quanto mai evidente che ci troviamo di fronte ad un bivio e dobbiamo necessariamente scegliere una strada. La prima prosegue, ammesso che sia possibile insistere su quella direzione, il cammino già battuto, è prosecuzione del fallimento che abbiamo di fronte ai nostri occhi: cattedrali industriali nel deserto; esportazione immediata di tutte le materie prime e secondarie per farle rifinire e vendere a filiere estranee alla nostra economia; emigrazione del nostro capitale umano, ossia di operai specializzati e neo-laureati; dipendenza dai ministeri di Roma; sciacallaggio di finanziamenti europei; esclusione dai bilanci dei fondi per i settori agro-pastorali; indebitamento perpetuo con banche straniere; inquinamento. Pare proprio che non manchino di nuovi Rovelli e Moratti, impersonati stavolta da emiri e sceicchi, ai quali svendere le nostre risorse e il nostro territorio, per poi chiederci in eterno perché la politica italiana non rispetta i diritti dei sardi.
La seconda strada è quella di un nuovo cammino, che la Sardegna può e deve decidere finalmente di intraprendere. E’ un cammino che richiede l’impegno di assumersi la propria responsabilità come popolo e come individui, con sempre meno deleghe e più sovranità. Se vogliamo realizzare davvero un’autentica rinascita è necessario che i lavoratori sardi diventino protagonisti e non comparse del proprio futuro. Questo nuovo cammino può condurre i lavoratori sardi da una condizione di subalternità statica ad una condizione di dinamica risalita, con la possibilità di ricoprire anche ruoli dirigenziali in una logica che premia il merito e le competenze individuali.
Lungo la strada verso la crescita dell’imprenditorialità sarda ci sarà posto per la creazione di infrastrutture efficienti e il potenziamento di quelle esistenti, il superamento dello scacco imposto da Equitalia attraverso una riscossione e ridistribuzione sarda dei tributi, l’organizzazione di cicli di produzione del settore secondario che siano realmente supporto del terziario e non soffocamento; la valorizzazione delle specificità locali e l’istituzione di una filiera alimentare interna alla Sardegna che permetta di ridimensionare le importazioni e soddisfare in primis il fabbisogno dell’isola.
Per compiere questi passi l’imprenditoria sarda dovrà uscire da quelle logiche di sussistenza statale che non favoriscono lo sviluppo, ma bensì lo frenano con un sovraccarico di tasse. Solo con un’autentica sovranità sui processi produttivi, che liberi la Sardegna dalla dipendenza dagli aiuti e dalle imposizioni dello Stato italiano, i lavoratori sardi di ogni settore potranno smettere di protestare per iniziare a vivere.
Alessandro Derrù
iRS – Tzda Porto Torres