La Città dei Fantasmi e la “politica della ruspa” del Comune di Sassari

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Questo racconto vuole essere la testimonianza del nostro incontro con una comunità di migranti di Sassari e che ora purtroppo non esiste più, scomparsa in seguito all’esecuzione di un provvedimento di sgombero da parte dell’amministrazione comunale.

A Sassari nell’area tra Corso Vico e via XXV aprile, presso gli edifici dell’ex-deposito dell’Azienda Trasporti Pubblici, negli ultimi anni si è installata una comunità di migranti di varie nazionalità. Romeni, marocchini ma anche sardi, alcuni perfino sassaresi che le peripezie della vita hanno reso in un certo senso “migranti in patria”. Li abbiamo conosciuti tutti, negli ultimi tempi siamo spesso andati a visitarli, incuriositi da quel piccolo mondo che avevano creato all’interno del recinto che delimita l’area. Nell’ex-deposito si trova una serie di piccole casette, fatte con tavolette di legno e altri materiali di recupero. Le case sono dentro uno stabile, che un tempo doveva ospitare le officine, vista la grandezza delle sue dimensioni. Si vede subito che dietro la costruzione di queste abitazioni c’è una certa sapienza tecnica; piccole tavole, anche di poche decine di centimetri, inchiodate tra loro, insieme a un‘infinità di materiali di vario genere; pezzi di compensato, lamiera e fogli di cartone. L’insieme non disturba per niente, anzi si nota pure una certa armonia.

All’interno ognuno ha una piccola stanza per dormire, con un letto e un materasso e nonostante la povertà delle costruzioni c’è molta cura e tutto è in ordine. All’esterno, un ampio cortile circondato da un muro che delimita l’intera area. Il muro è limite e confine, oltre c’è la città. All’interno del deposito di via XXV aprile è nata così una piccola città “altra”, fatta da tutto questo insieme di scarti che la città del consumo ritiene per sé insignificanti ma che invece in questo spazio ri-acquistano valore, un nuovo senso. Uno spirito di reciproca solidarietà si è formato col tempo fra le persone che abitano qui. Nonostante l’estrema povertà c’è comunque un grande decoro. Tutto all’interno di quelle piccole baracche è in perfetto ordine. Vestiti, coperte, qualche libro.

I nostri amici migranti ci hanno raccontato che più volte la municipalità, i servizi sociali, si erano presentati per proporre loro delle nuove sistemazioni ma i migranti, hanno sempre tutti declinato quest’invito, per vari motivi: “Noi vogliamo rimanere qua, siamo come una grande famiglia e tutti si comportano bene, tra di noi ci si aiuta, e poi qua vicino c’è la stazione, ci sono i negozi e le mense, dove ogni giorno andiamo a prendere i pacchi con il cibo. Ci volevano portare fuori, lontano, per questo abbiamo detto no, noi vogliamo stare in città”.

Non è stata sempre una comunità completamente stabile e omogenea quella di via XXV aprile, ogni tanto qualcuno parte ma qualcun altro arriva. Catapultato qui da qualche angolo del mondo, rifiutato e cacciato o attirato per la presenza di un amico e connazionale.

Petru, romeno, di Bucarest. Quando abbiamo parlato con lui per la prima volta, ci ha raccontato che con la moglie si trovava a Sassari solo da una settimana. Non conoscevano nessuno, hanno saputo dell’esistenza di questo spazio dell’accoglienza,  grazie a informazioni ricevute da canali che solo gli esclusi e gli emarginati conoscono. Canali che trasmettono su frequenze parallele, distorte, accessibili solo a chi possiede le chiavi giuste per sintonizzarvisi. E queste chiavi, questi codici, sono spesso forniti dalla condizione del comune disagio e della sofferenza quotidiana. Petru ci racconta la sua storia: “Prima di arrivare in Sardegna stavamo in Norvegia, ma sia io che mia moglie soffrivamo per la rigidità del clima e perciò cercavamo un posto più caldo. Un amico mi aveva detto che c’era un’isola nel mediterraneo dove la gente era molto ospitale e gentile. Così abbiamo deciso di partire. In Romania abbiamo tre figli che vanno a scuola, li chiamiamo tutti i giorni. Ci chiedono di inviare loro del denaro per tutte le necessità quotidiane. Siamo qui in Sardegna solo da una settimana ma sono già molto deluso. Ci siamo da pochi giorni ma sentiamo di avere già perso la nostra dignità, quello che ci fa più male è l’incredibile indifferenza della gente, nessuno ci considera e per noi è molto difficile farci capire, perché qui nessuno parla l’inglese, we are invisible, ecco quello che siamo. In Norvegia esistono molte strutture per l’accoglienza degli immigrati come noi, sono gratuite e con tutti i servizi essenziali. Laggiù eravamo abitanti come tutti gli altri e le persone del posto erano sempre disponibili e gentili nei nostri confronti.”

Petru continua a raccontarsi, mentre è impegnato nella costruzione di un ricaricatore artigianale per il cellulare, mettendo insieme alcune batterie e collegandole poi con un filo elettrico. “Dieci anni fa ero un calciatore professionista, da giovane avevo anche giocato in serie A, nello Steaua di Bucarest, poi in qualche squadra dei paesi scandinavi e poi ancora..” Il racconto s’interrompe, allora capiamo che qualcosa è successo nella sua vita, una vita che la società di cui siamo parte vorrebbe fosse sempre lineare. Le deviazioni dai percorsi, le curve brusche, non sono contemplate e Petru forse ha lasciato le autostrade del senso comune per percorrere sentieri diversi e inesplorati. Cosi come hanno fatto tutti gli abitanti di questa città esclusa, dimenticata e incompresa, la “città dei fantasmi”, ecco come la chiama Antonio, di Sassari, anche lui abita qui. Un “migrante interno”, un migrante della vita. Ci fa entrare nella sua piccola casa, dove la moglie tiene tutto in perfetto ordine.

“Questa è la città dei fantasmi, i fantasmi siamo noi. Oltre questo muro c’è un’altra città, quella degli indifferenti. Per loro noi non esistiamo, noi siamo gli introvabili”.

Quella città che li ha esclusi, che non li vuole e li rifiuta. Quella città che non ha voluto capire, perché non ascolta il disagio dell’altro, perché prima di tutto ha paura del proprio dolore. Antonio non è l’unico abitante sardo, ce ne sono diversi. Alcuni provengono dalle zone interne dell’isola. Qui c’è uno spaccato del mondo contemporaneo, le storie e i racconti locali s’intrecciano e si fondono con altre storie di paesi lontani. Così come le lingue che si parlano in questo microcosmo interculturale: il sardo, il sassarese, il rumeno, l’arabo, ma anche l’inglese di Petru che non conosce l’italiano, il francese di Mohammed, un ragazzo tunisino che ci tiene a dire che non abita qui, lui vive in una “casa vera”, perché aveva un lavoro regolare, ora è stato licenziato e viene ogni tanto per trascorrere il tempo libero e visitare gli amici.

Poi c’è Franco, un pastore che dalla parlata caratteristica  sembra provenire da un’imprecisata località del Logudoro. Lo ascoltiamo interessati mentre con Tonio, anche lui pastore, ma della Barbagia, ci racconta storie incredibili di faide lontane, descrivendo luoghi di una Sardegna senza tempo, tanto distante ma anche così prossima, al punto tale da affascinare e sorprendere tutte le donne e gli uomini delle baracche, seduti su sedie barcollanti ad ascoltare in religioso silenzio, e sembra pure che tutti capiscano il sardo, e il sassarese. Inizia una gara a sa murra tra Tonio e Franco, gli altri assistono divertiti e incuriositi, per il vociare ritmato e i movimenti del corpo, qualcuno prova anche a scimmiottare i due giocatori. Il clima è festoso, quasi armonico, tra persone che si trovano a co-abitare insieme, condividendo le necessità e i disagi.

Davanti all’edificio che contiene le casette di legno si trova una piccola costruzione in muratura, di un unico livello. Un tempo c’erano gli uffici dell’azienda trasporti pubblici. Ci sono diversi ambienti, in un grande stanzone vive Franco con sua moglie, lei è della Romania. Nello stanzone attiguo, ci sono invece i “musicanti”. Loro vogliono essere chiamati così. Sono un gruppo di giovani rumeni che ogni tanto girano per la città suonando la tromba e altri strumenti a fiato. Alla ricerca di qualche spicciolo percorrono le strade e le piazze di Sassari, intonando brani che ti fanno sentire dentro un film di Emir Kusturica. Così, la band improvvisata della città dei fantasmi prova a incontrare la città degli indifferenti, a capeggiare il gruppo c’è Franco, il pastore logudorese, che con bastone e cappello in mano si presenta ai passanti e a chi, incuriosito da questa nuova melodia, si affaccia alle finestre e ai balconi,“buongiorno signore, un po’ di musica per mangiare”, ringraziano e riprendono a suonare. Nelle loro incursioni musicali nella città prediligono sempre i quartieri del Monte Rosello e del Centro Storico. Quasi mai invece si avventurano in altre zone; “qui almeno la gente ci sorride, da altre parti abbiamo provato ma ci siamo accorti che davamo fastidio”.

La città dei fantasmi, è un insieme di tanti luoghi, tanti quanti sono quelli che vi sono inscritti nei corpi dei suoi abitanti. Così questo luogo strano è magicamente collegato con altri luoghi del mondo. E anche noi, che siamo solo spettatori temporanei di questo scenario, percepiamo quello strano stato di sospensione che fa parte dell’animo migrante, un stare contemporaneamente qua e (un che rimanda verso un altrove indefinito, quasi immaginario), e che produce un continuo spaesamento. Allora iniziamo a pensare, che dopo questi incontri, queste esperienze di alterità, qualcosa anche dentro di noi comincia a cambiare. La città dei fantasmi è un luogo di muta, un momento di rinascita perché fa rimettere in discussione noi stessi e il nostro stare al mondo.

Le nostre visite proseguono, ci rendiamo conto immediatamente di piccole necessità quotidiane. Gli abitanti “storici”, quelli che hanno occupato per primi l’ex-deposito sono i più esperti e aggiornati in fatto di previsioni meteorologiche. Hanno fatto già diversi inverni qui e hanno imparato ad attrezzarsi per il freddo e l’umidità. I nuovi arrivati come Petru e sua moglie hanno invece con sé solo poche cose per coprirsi. Ritorniamo perciò dopo qualche giorno, dopo aver raccolto un po’ di vestiario invernale con l’aiuto di amici e parenti. Giusto in tempo perché le previsioni meteo annuncino un brusco abbassamento delle temperature per il fine della settimana. Ci ringraziano e ci accomodiamo all’interno del deposito, dove tra le case c’è uno spazio comune che solitamente si usa per condividere i momenti dei pasti e dello svago, quando si gioca a carte o si suona. Non c’è un’aria allegra, percepiamo qualcosa di diverso rispetto alle visite precedenti. Nei volti di Petru, Tonio, Franco, Nicolai, Amir e di tutte le donne, è evidente la preoccupazione. Petru  anticipa la mia domanda e mi mostra subito un foglio bianco con lo stemma del Comune di Sassari:

ORDINANZA N.84, DEL 24/10/2012

Oggetto:

OCCUPAZIONE ABUSIVA AREA COMPRESA TRA VIA XXV APRILE, PIAZZA DELLA STAZIONE, CORSO VICO E PIAZZA SANTA MARIA –ORDINANZA DI SGOMBERO-

ORDINA

L’IMMEDIATO SGOMBERO DELL’AREA IN PREMESSA DA TUTTI GLI OCCUPANTI ABUSIVI, PROCEDENDO NEL CONTEMPO ALLA LORO IDENTIFICAZIONE, OLTRE LO SGOMBERO DA COSE SUPPELLETTILI E DA BENI PERSONALI.

“Ci hanno detto che qui devono iniziare i lavori per la nuova stazione dei bus, e poi dovranno fare un centro commerciale. Noi non vogliamo andare via, ci conosciamo tutti ormai, qua ci vogliamo bene. Il comune dovrebbe sistemare questo spazio, pulirlo e fare degli alloggi più confortevoli. Invece si continuano a fare centri commerciali. ”

Cerchiamo di tranquillizzarli, lo facciamo con sincerità, perché in fondo anche noi crediamo che l’ordinanza del Comune sia solo una sorta di “primo avvertimento”, almeno questo è il parere generale, condiviso da tutti. Ci scambiamo i numeri di telefono, con la promessa che se nei prossimi giorni si fosse presentato il pericolo imminente dello sgombero, avremmo cercato di fare qualcosa.

Non abbiamo fatto in tempo. Il 29 ottobre 2012, di primo mattino, le ruspe demolitrici hanno fatto la loro comparsa presso la Città dei Fantasmi. Apprendo la notizia da un quotidiano on-line. Colpisce l’incipit dell’articolo: “I cittadini e i commercianti di corso Vico e via XXV aprile attendevano l’operazione da tempo”. A lato del pezzo la foto dello sgombero, dove un pubblico di spettatori-cittadini assiste alla demolizione-esecuzione. Da una parte i “cittadini”, dall’altra un chi indefinito e imprecisato di sgomberati, senza tetto, immigrati.

La cittadinanza oggi è ancora uno status che sancisce l’esclusione del diverso. Il migrante, il nomade, tende sempre a spostarsi, producendo effetti talmente destabilizzanti per una società così sedentarizzata come la nostra che la sua presenza deve essere rimossa, anche fisicamente, attraverso la cancellazione delle tracce del suo passaggio. Il migrante è un abitante perennemente in transito, non definito, vago, la sua figura è poco conciliabile con le politiche ancora troppo rigidamente centrate sull’uguaglianza cittadino = abitante = residente.  A questa dimensione politica e culturale, così poco preparata ad affrontare i processi contemporanei, non si sottrae neanche l’amministrazione comunale sassarese, il cui principale obiettivo pare essere la rimozione del conflitto dentro la città,il conflitto sempre demonizzato e visto come un problema, per la paura della sua ingovernabilità e dell’imprevedibilità dei suoi esiti. Ancora non ci si rende conto che sono proprio i conflitti, i paradossi generati dagli scambi impossibili, (in questo caso tra abitanti stanziali e temporanei) che costituiscono la linfa per la rigenerazione continua della città, per il mantenimento della sua vitalità. Non si può non pensare alla città senza contemplarne anche gli aspetti conflittuali. Anche quando questi possano sembrare “irrisolvibili”, sempre che un conflitto debba essere per forza “risolto”. A questo proposito Jean Baudrillard ci dice: ”Contro tutto ciò che si sforza di riconciliare i termini antagonistici, mantenere lo scambio impossibile, giocare sull’impossibilità stessa di questo scambio, giocare su questa tensione e su questa forma duale, alla quale niente sfugge, ma alla quale tutto si oppone”.

Invece dietro il solito pretesto delle condizioni igienico- sanitarie e del pericolo per la salute pubblica, si procede ad operazioni di sgombero, si va avanti con la “sensibilità delle ruspe”. Non si tiene minimamente conto della fitta rete di legami comunitari che intanto la città dei fantasmi aveva prodotto nel tempo. E non è un caso che proprio in prossimità della stazione ferroviaria, alle porte di Sassari, si sia installata questa grande residenza collettiva e temporanea. L’area è da sempre un luogo naturale di transito e chi, più del migrante, ha necessità di collocarsi in prossimità di una stazione, luogo della partenza e dell’arrivo?

Una politica urbana più sensibile avrebbe dovuto porsi prima di tutto nell’ottica sincera dell’ascolto dell’Altro. Sarebbero potute emergere nuove idee, soluzioni inedite e innovative che avrebbero anche portato a ridefinire la progettualità dell’area di via XXV aprile, magari contemplando anche questa sua vocazione all’accoglienza dell’abitante temporaneo. Residenze e foyers des migrants esistono in tante città europee e la loro posizione è consapevolmente prevista all’interno della città compatta, col punto di vista di portare al centro chi si trova al margine della società. Il racconto che ci ha fatto Petru, a proposito della Norvegia, è una testimonianza diretta del fatto che le politiche inclusive della differenza producono esperienze positive e consentono ai migranti di sentirsi creativamente protagonisti nella vita pubblica. Allora i conflitti potrebbero essere produttori di nuovi fermenti urbani, potrebbero esser qualcosa di veramente fecondo per le nostre città perché consentono la produzione di nuove differenze.

Si legge nella stampa locale che l’amministrazione comunale abbia provveduto alla sistemazione delle persone “sgomberate” presso bed and breakfast e “strutture convenzionate”. Ci si chiede fino a quando durerà quest’ospitalità, e dopo? Dopo, o forse già da ora, gli “sgomberati” sono alla ricerca di qualche anfratto e interstizio, dove poter ricostruire una nuova casa attraverso la propria arte sapiente di esperti neo-carpentieri del rifiuto e dello scarto, abili e geniali nel raccogliere ogni genere di oggetto (dalla piccola tavola fino al pezzo di cartone) che possa servire per una parete, un tetto. Come forse ora sta facendo  anche Petru, che sono riuscito a rintracciare per telefono, qualche ora dopo lo sgombero. In uno stentato inglese mi ha detto che lui non si trova in nessun bed and breakfast o struttura convenzionata. Intanto sento in sottofondo suoni di martelli che battono chiodi e tavole che urtano una sull’altra. Non mi ha voluto dire dove si trova(no). Ho tentato di richiamarlo varie volte ma non risponde più al telefono. Forse ha pensato che anche io facessi parte dei famosi Guardian Angels, quelli in divisa con basco sulla testa e anfibi ai piedi, che percorrono le strade della città, alla ricerca di senzatetto da segnalare alle autorità (sulla Nuova Sardegna del 30 ottobre, in chiusura dell’articolo sull’operazione di sgombero, c’è un loro specifico invito alla “collaborazione” [sic], con tanto di numero di telefono). Adesso Petru e gli altri amici sono tornati nuovamente invisibili, dispersi chissà dove, fantasmi, ma questa volta senza più la loro città.

Andrea Faedda

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