Parlano, le parole di Placido Cherchi durante la presentazione filosofica, antropologica e politica del suo ultimo saggio inedito “Per un’identità critica”.
Un’anticipazione per l’ascolto eccezionale di una comunità di ottanta persone che hanno partecipato alla giornata del 2 Giugno in Ogliastra, promossa da iRS sul valore dell’oralità.
Le incursioni autoanalitiche nel mondo complesso dei sardi, attraversano l’autocoscienza del valore e quella del limite, l’etnocentrismo difensivo e la restituzione della dignità. Colgono quel credito aperto, quegli orizzonti della Storia che ci hanno contratto, che non ci fanno soggetto protagonista e il perchè, su di noi, si consumano “i bivacchi che il saccheggio dell’intimità è sempre pronto a infliggere”.
Nella misura che i sardi hanno nell’uso della parola, in quel non- detto, emerge la sacralità che protegge dall’esproprio del sè, lì dove oggi, contemporaneamente si insinua lo strumento mediatico che non ha nessuna consistenza esistenziale, ma crea campi d’abitudine. “Un risucchio sociale” che misto ai risvolti degenerativi della comunicazione, può avere effetti devastanti.
Tra i primi, la conoscenza delle cose degli altri, piuttosto che le nostre, e quindi la censura della nostra diversità.
Sono processi deculturanti a cui il valore dell’oralità deve dar limite. Certo la comunicazione frontale è nell’attuale la più difficile, ma rimane comunque la più completa. Come il silenzio.
Nel “fungudumine” dei sardi, interpretato come mutismo, doppiezza, incapacità espressiva, risiede l’esatto contrario di tutto questo.
C’è una coscienza scissa che si muove a intermittenza, ora sul crinale del nostro ordinario “essere qui”, ora sul versante sempre ritornante del nostro “sentirci altrove”.
Nel cerchio del pane, sottostante la torre di Nuraxi Scerì, dove l’incavo della pietra principale conserva l’uso della macina, l’altrove è il presente. Lo racconta la discrezione colta di Stefano Coda che manipola architetture nuove su antichi saperi. E a parlare è la stessa semplicità del “Suspu Mudu” di Grazia Dentoni e Giancarlo Murranca che ci introducono nella religiosità politica della Nuraxìa, non a caso combattuta, non per niente anestetizzata nel folklore.
La modulazione dei suoni provoca vibrazioni ritmiche primordiali, con le quali l’universo si regge.
“La parola, quale insieme di suoni, è lo strumento col quale su Eternu Increau Universu Creadori ha dato la volontà e la spinta motoria per creare l’universo creato”, dice la Nuraghelogìa.
La lingua dei costruttori di nuraghi, nella sua musicalità e purezza, non ancora contaminata da parlate “straniere”, doveva essere in perfetta armonìa e rispondenza con” le percezioni di un suono interiore” comune a tutte le creature viventi. Doveva essere questo sardo primigenio quello che in antichi testi fu definito “lingua degli uccelli” o “lingua celeste o angelica”, senza per questo autorizzare alcuno ad affermare che quella “sarda” è caldea o indù, micenea o altro.
Non sarebbe per effetto di immaginarie emigrazioni di masse, ma per lo sviluppo di un meccanismo psichico e fisico in un clichè comune, che troviamo somiglianze culturali con altri popoli. Quella potenza evocativa nel tempo veniva sostituita dalla funzionalità di un freddo meccanismo, come simbolo di una parola assente: la scrittura. Non hanno utilizzato questo strumento nè Budda, nè Gesù Cristo, nè Socrate, nè tantomeno i nostri avi, perchè per loro bastava questa potenza evocatrice. Dicevano che la scrittura fosse il sostituto avvilente della parola.
Tèxere, Piranserì, Tarè, Matalè, Irdalasè, sono suoni che materializzandosi nelle pietre dei nuraghi che circondano Scerì, si sono fatti nomi.
E’ l’archeoastronomìa a venirci incontro per capire meglio, una scienza che non si astiene dal presentarli in correlazione con i numeri, i pianeti, le stelle, laddove nei secoli bui, chiamata “limba de s’aremigu”, poichè demoniaca, andava cancellata.
Sotto l’ombreggio del capanno di Nuraxi Murtarba, il recupero della coscienza e del senso, per non soccombere nell’autolesionismo infeudante, è anche nelle parole di Giangiacomo Pisu, come nei “Contos de s’Ogliastra” di Ivan Marongiu, e lo stesso desiderio di appartenenza lo esprimono i componenti di Agugliastra Associazione culturale nel presentare un’attività che coinvolge molti giovani appassionati come Matteo Cuboni e Francesco Chighine, che riportano alla luce siti archeologici ingoiati dalla natura e dalla nostra ignoranza.
E la parola ritorna suono con le launeddas dell’adolescente Angelo Murgia e la tromba di Riccardo Pittau, un affiancamento strumentale e generazionale distante, ma mai così vicino.
Noi continuiamo a fare quello che da millenni abbiamo sempre fatto, riusciamo nella nostra capacità di aggregarci, scambiare opinioni, kumbidare e dedicare ogni spazio alla conoscenza, senza possesso delle idee, frutto di egoismo e supponenza culturale, e senza invidie, indotte anch’esse come sbocco consapevole di fallimenti personali.
Ci muoviamo per costruire un nuovo soggetto storico, una Sardegna partecipata, senza abdicazioni, senza doverci difendere dal relativismo culturale, trovando il modo di applicarlo in maniera corretta. Così operiamo, senza forzature, “le traduzioni che è necessario compiere”.