E’ andata male, almeno sportivamente parlando, questa volta il ferro ha sputato il tiro della vittoria ma ormai il “Fenomeno Dinamo” è andato aldilà di una semplice partita di basket, trasformandosi in pochi anni in una vera e propria eccellenza sportiva, sociale e d’immagine che potrebbe tranquillamente servire come modello da adottare per l’avvenire della Sardegna.
Le vittorie sportive hanno la loro importanza, possiamo provare anche a sottovalutare la questione, ma in epoca moderna non è sbagliato affermare che l’autostima di un popolo, una nazione o di un semplice gruppo di persone ruoti anche, e in alcuni casi quasi esclusivamente, intorno alle affermazioni della propria squadra del cuore. Lo sport assume da tempo il compito di rafforzare un sentimento di appartenenza comune. Le vittorie del Barcellona nel calcio non hanno forse aumentato a dismisura l’orgoglio, già comunque sviluppato, dei catalani? E, rimanendo in ambito cestistico, vedere giocare la squadra basca del Baskonia in Euroleague (la Coppa dei Campioni del basket) davanti a tantissime ikurriñas, non dimostra chiaramente come l’identità nazionale passa anche attraverso questo tipo di eventi?
In quest’ottica, la Dinamo sta iniziando per i sardi ad assumere un ruolo simile, le sue vittorie potrebbero contribuire a spazzare via quell’alone da ultimi della classe, da passivi e quindi da sconfitti che, per quanto sia infondato storicamente visto che di battaglie ne abbiamo vinte non poche in passato, ai sardi (non a tutti ovviamente) piace portarsi addosso.
La squadra di basket sassarese è un perfetto esempio di come dovrebbe essere la Sardegna futura, vivace e sfacciata, leggera e veloce come un vascello di corsari, senza timori riverenziali nei confronti delle grandi potenze. Nessuno come la Dinamo rappresenta esattamente la nuova generazione di sardi che, a differenza della classe politica che li governa da sempre, non soffrono di inferiorità psicologiche ma esprimono una moderna forma di Balentia ( nessuno si senta offeso se uso questo termine nobile), con braccia valorose che sparano proiettili da tre punti e coltelli che tagliano come il burro le difese avversarie. E poi Sassari non si limita a cercare la classica e scontata “ribalta nazionale” limitandosi a sfidare gli squadroni italiani; la Dinamo quest’anno è andata in Europa, proprio come in Europa dovrebbe andarci più spesso la Sardegna, e non è un caso che nell’esperienza in Eurocup, la società abbia deciso di cambiare il nome in “Dinamo Sardegna”, una mossa perfetta che assume significati inequivocabili e premia anche chi si sobbarca lunghe trasferte da tutta l’isola per poter assistere in prima persona, in un palazzetto sempre sold-out, alle imprese di questi eroi dei nostri tempi.
Siamo abituati a un’isola in cui i sardi troppo spesso si sono accontentati di un ruolo da comprimari, assunti da “padroni forestieri”, operai nelle grandi imprese dei Moratti e dei Rovelli, camerieri nei lussuosi ristoranti degli Aga Khan e dei Briatore, minoranza nei consigli di amministrazione di quelle che dovrebbero essere le nostre banche (vedi il recentissimo caso delle nomine esterne proprio al Banco di Sardegna), o peggio ancora politici locali inginocchiati a riverire il segretario di turno nei suoi viaggi elettorali nell’isola. La Dinamo ribalta anche questo concetto. La preparazione, la serietà, l’ambizione e le capacità di un gruppo dirigente sardo sono stati il motore di questo progetto. Testa isolana e braccia forestiere. Giganti stranieri dal cuore tenero, le lacrime dopo gara 7 mostrano un vero attaccamento, che arrivano dagli Stati Uniti, dalla Slovenia, dall’Italia e dalla Polonia e che qua hanno trovato una situazione ambientale ottimale. Vincono sorridendo, sorridono vincendo.
Per questi motivi la stagione può considerarsi comunque un grande successo. A volte il successo è una questione di centimetri, ma noi sardi abbiamo già dimostrato di avere l’altezza giusta per poter primeggiare nello sport dei giganti.
Marco Lepori