The song remains the same. Tutte le strade portano a Roma, tranne la nostra!

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“Porteremo la questione su tutti i tavoli, dobbiamo andare a Roma!”

La frase simbolo dell’autonomia sarda, un concetto talmente radicato nella mentalità dei sardi che è ormai chiusura scontata di un numero incalcolabile di servizi giornalistici; una sgradevole tradizione ormai diventata “popolare”, un po’ come i cartelli stradali sparacchiati o le vie dedicate ai savoia.

Tutte le categorie, nel corso degli anni, hanno fatto ricorso a questa sorta di formula magica, amministratori locali di vario livello, commercianti, pastori, operai e minatori, come se la capitale dello stato italiano fosse l’ultimo baluardo di una giustizia negata, la meta adatta a rinfocolare ogni speranza destinata a spegnersi. Per non creare fraintendimenti, sia chiaro che non viene messa in discussione la dignità delle categorie in questione, ne tantomeno la ragionevolezza delle richieste portate avanti. Ricordate Soru ricevuto da Prodi e le promesse non mantenute sulla “vertenza entrate”? Ecco, se il buon Renato avesse conosciuto un po’ meglio la storia sarda forse non si sarebbe fidato di quelle false garanzie. A proposito, mentre leggete quest’articolo ricordate che il nostro credito aumenta alla velocità di 2 euro al secondo.

Sarebbe quasi impossibile, per ragioni di spazio, ripescare tutti gli episodi di questo triste percorso; è interessante però ricordare almeno quelli più significativi per dimostrare con i fatti come questo curioso meccanismo si ripeta da troppo tempo. Ecco allora la gloriosa storia dei sardi fiduciosi e degli italiani “distratti”.

L’inizio è decisamente di quelli che fanno ben sperare e anticipa addirittura la nascita dello stato italiano; è il 1793 e la nazione sarda fa parte da tempo del Regno di Sardegna, che, a scanso di equivoci, di sardo ha solamente il nome. Potendo contare solo sulle proprie forze difensive i sardi riescono a sconfiggere l’esercito repubblicano francese che cerca di invadere l’isola; è una vittoria epocale e i nostri, giustamente ringalluzziti, elaborano un documento con precise richieste di riforma, le famose “cinque domande”, e lo affidano ad una delegazione composta dai rappresentanti dei 3 Stamenti del parlamento sardo: obbiettivo Torino e le attenzione del re Vittorio Amedeo III. La risposta del sovrano fu chiara e inequivocabile, gli Stamenti furono sospesi il giorno stesso in cui i delegati sardi arrivarono nella capitale; i rappresentanti isolani non furono accolti dal re se non dopo 3 mesi di anticamera e la definitiva bocciatura delle 5 domande arrivò solo nell’aprile del 1794 e sarà l’elemento scatenante della cacciata dei piemontesi e dell’inizio della Sarda rivoluzione.

Una seconda storica spedizione ebbe invece successo, ma per un motivo ben preciso, non era nient’altro che il coronamento di un disegno che i reali piemontesi progettavano da tempo. Nel 1847 i sardi non si sono ancora ripresi dal fallimento della rivoluzione antifeudale e sovranista, la nave Sardegna è completamente in balia dei venti, smarrita nelle nebbie del disinteresse e dell’abbandono. Sono ancora i rappresentanti degli Stamenti a segnare una svolta, questa volta però in senso negativo. Si auto-convincono che l’unica soluzione per evitare il completo naufragio sia la “fusione perfetta” con le regioni di terraferma. Si tratta di un’operazione masochistica decisa da pochi, la rinuncia definitiva all’antica autonomia. Come anticipato, questa volta la spedizione ha esito positivo e la richiesta viene accordata da un gongolante Carlo Alberto desideroso di  estendere il proprio potere in maniera ancora più assoluta sulla colonia mediterranea. Gli effetti di questa lungimirante scelta saranno catastrofici e verranno riassunti dal celebre “Errammo tutti” pronunciato da Siotto Pintor pochissimi anni dopo.

D’ora in avanti dunque i sardi avranno i loro rappresentanti in “continente”, si apre una storia parallela, quella dei deputati sardi al parlamento italiano, per molti una vera e propria ossessione di vita, la massima aspirazione del politicante “Made in Sarditaly”, una presenza il più delle volte impalpabile e condizionata dallo schieramento politico, le aspirazioni del popolo sardo riecheggeranno esclusivamente in periodo di elezioni.

Gli esempi non mancano; nel 1888 tutti i deputati isolani, senza distinzione di schieramento, sono chiamati ad indicare al governo Crispi gli interventi più urgenti per l’isola. Tra le tante richieste emergerà la necessità di un aiuto per la Banca Agricola Sarda, la fine dei lavori per la costruzione delle ferrovie (un vero calvario se si considera che solo per completare la linea principale ci vollero ben 17 anni, dal 1863 al 1880), il ribasso delle tariffe e l’istituzione di scuole pratiche e professionali. Inspiegabilmente però tutte le richieste furono seccamente respinte; per capire meglio l’atteggiamento generale basterà ricordare come il governo non si limitò solo a non concedere alcunché alla banca sarda, ma diede precise indicazioni affinché gli istituti di credito continentali, su tutti il Banco di Napoli, potessero sostituire quelli isolani.

Un atteggiamento che non muta con il nuovo secolo, nelle elezioni politiche del 1921, le ultime prima della “marcia su Roma” fascista, i sardisti ottengono un notevole 28,8% portando alla camera ben 4 deputati. L’agguerrita rappresentanza sembra avere l’occasione giusta per far valere le proprie istanze autonomiste. Anche in questo caso tutto si risolve nella più totale indifferenza. Ricorderà Lussu: ”Quando alla camera un oratore parla d’autonomia, la destra sonnecchia, la sinistra sbadiglia e il centro dorme profondamente”. Un vero smacco per uno strenuo difensore dell’italianità dei sardi quale Lussu era. Le energie sardiste verranno poi sprecate soprattutto nel garantire la fedeltà sarda messa in discussione nei giorni in cui l’Irlanda conquistava la propria indipendenza. Eppure i sardisti avrebbero dovuto imparare la lezione dall’esperienza di uno dei fondatori del partito, quel Davide Cova che, giovane ingegnere, fonda nel 1910 il “Movimento sardo”, primo germoglio del futuro Partito Sardo. Nel breve spazio di pochi mesi Cova per ben due volte guiderà una delegazione sarda a Roma dal Primo Ministro Giolitti senza ottenere nient’altro che le solite vaghe promesse di circostanza, di concreto arrivò solo la Grande Guerra.

Con l’avvento della Repubblica la “costante assistenziale sarda” si rafforza ulteriormente alimentata continuamente dalla forza propagandistica degli apparati partitici italiani e dalle organizzazioni sindacali. Riusciamo anche ad avere due Presidenti sardi, gli ineffabili Segni e Cossiga campioni indiscussi di italianità auto-imposta. Le figuracce si susseguono. Come non ricordare ad esempio la grande traversata dei sindaci del Medio Campidano del 1966 che da tempo chiedono l’istituzione della nuova Provincia di Oristano; ben 74 primi cittadini che si recano a Roma per un appuntamento con l’allora Ministro degli Interni Taviani. Nonostante fosse lui ad aver convocato la delegazione il ministro preferì andarsene spensieratamente in vacanza in Svizzera trattando i sardi alla stregua di poveri mendicanti. La Provincia fu poi puntualmente istituita nel 1974!

Due costanti uniscono con un filo rosso queste memorabili esperienze: la speranza della partenza che risulta esattamente proporzionale alla delusione del ritorno e la totale inaffidabilità delle promesse fatte unite a un completo disinteresse su sponda italiana, che spesso si traduce in senso di superiorità e spocchia; di riflesso l’autostima dei sardi sembra sempre più in declino. A queste due costanti si aggiunge più recentemente la spiacevole variante degli interventi repressivi delle forze dell’ordine. Una brutta esperienza che accomuna i minatori del Sulcis picchiati a Roma nel 1995 agli operai dell’Euroalluminia che subirono lo stesso gentile trattamento 15 anni dopo, per non parlare dei pastori sardi rinchiusi per ben due volte in un recinto prima a Civitavecchia (dicembre 2010) e poi a Roma il mese scorso, con buona pace delle più elementari forme di libertà garantite da ogni democrazia.

Insomma, il probabile prossimo pellegrinaggio al capezzale di Monti del volenteroso Cappellacci “ragioner” Ugo non promette nulla di buono, se è vero che tutte le strade portano a Roma forse è tempo che la nostra prenda altre direzioni.

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