Catalogna e Sardegna, le patrie dei destini incrociati

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di Franciscu Sedda

Convegni. A Barcellona la scorsa settimana si sono riuniti gli stati generali dell’indipendentismo europeo

Catalogna e Sardegna, le patrie dei destini incrociati

Ma nella prima la memoria della nazione è ovunque: nei nomi delle strade, nella quotidianità, nella lingua, nel senso di appartenenza politica

La Storia ne combina di tutti i colori: giustamente uno scrittore russo la definì la “biografia di un pazzo”. È per queste sue stranezze che oggi, abbracciandosi sinceramente come fratelli, sardi e catalani non possono far a meno di lanciarsi un’occhiata di traverso e poi, dopo un attimo di complice imbarazzo, scoppiare in una fragorosa risata.
Quegli sguardi racchiudono il senso (o l’insensatezza) comune che unisce i due popoli. Entrambi sanno che la Sardegna invasa dai catalano-aragonesi combatté per difendere e affermare la sua indipendenza e, dopo tante vittorie, fu costretta a cedere la sua libertà proprio quando aveva imparato ad amarla; e sanno anche che quella lotta centenaria e sfiancante fu una “vittoria di Pirro” per i catalani che si giocarono e persero in Sardegna i loro Re, i loro migliori condottieri, il loro formidabile esercito, abbandonando così il proscenio della storia che allora calcavano da protagonisti.
Tragica sorte incrociata, ma con una decisiva differenza: in Catalogna la memoria della nazione non è scomparsa ma è ovunque. È nei luoghi e nei momenti del ricordo istituzionalizzati, come al “Fossar” dove una torcia sempre accesa e una grande scritta commemorano i catalani che nel 1714 morirono lottando contro francesi e spagnoli e dove ogni 11 di settembre si celebra la giornata nazionale catalana. È nei nomi delle strade e degli edifici: come allo Stadio Olimpico che porta il nome di Lluis Companys, padre della Repubblica di Catalogna, che proprio lì a Montjuïc, nel 1940, morì fucilato dall’esercito spagnolo gridando “Per Catalunya!”. È nel presente quotidiano: nell’architettura di Gaudì, nelle edicole e nelle librerie, dove troneggiano saggi sull’autodeterminazione e bestsellers dai titoli inequivoci come Adéu Espanya!, o allo stadio Nou Camp, dove gioca “l’esercito disarmato della Catalogna” – come lo chiamò lo scrittore Vázquez Montalbán – e dove non sventola, fin dai tempi del franchismo, nessuna bandiera spagnola: niente di strano allora che il presidente del Barça, l’avvocato Joan Laporta, prendendone le redini abbia pubblicamente ringraziato gli indipendentisti di ERC e garantito il pieno appoggio alla lotta per la costituzione della nazionale di calcio catalana.
La Catalogna è anche nel quotidiano rituale dei media, dove le moderne comunità forgiano se stesse. Basta accendere TeleTres, uno dei canali televisivi promossi dalla Generalitat (l’istituzione che rappresenta la Catalogna), per vedere quiz tanto postmoderni quanto autocelebrativi o per scoprire che almeno una sera alla settimana va in onda Histories de Catalunya: un mix di interpretazione storica e di ricostruzione degli scenari e degli avvenimenti del passato.
Ma la coscienza nazionale è soprattutto nella politica. Lo scorso anno al momento dell’insediamento del nuovo parlamento soltanto i deputati del Partito Popolare (12% dei consensi) non si sono alzati in piedi per l’inno nazionale catalano. È per questo che gli indipendentisti di sinistra di ERC (Esquerra Republicana de Catalunya) con il loro 17% di voti possono permettersi di governare con il Partito Socialista di Catalogna e con la sinistra alternativa di Iniciativa per Catalunya Verds invece che con il potente nazionalismo catalano di centrodestra di Convèrgencia i Unió, guidato per anni da Jordi Pujol: l’idea è che i tempi siano maturi per un bipolarismo adeguato ad una società politicamente avanzata e trasversalmente catalanizzata che non necessita di “fronti”, ma che può permettersi fin d’ora di agire al suo interno come se fosse una nazione indipendente.
Ecco perché il parlamento della Catalogna, vale a dire uno dei territori più ricchi d’Europa, con una società in fermento, con un’altissima capacità di accettare e integrare l’immigrazione, con una solida tradizione di lotte democratiche, con le sfide allo Stato sulla fiscalità e il nuovo Statuto, può essere tranquillamente presieduto da un indipendentista di ERC, Ernest Benach. Se a tutto ciò si aggiunge che in Catalogna si gioca in questi giorni una importante partita in materia di Europa, si capisce perché gli “stati generali” dell’indipendentismo europeo si siano riuniti proprio lì.
La tavola rotonda di Barcellona sui motivi del “no a questa costituzione europea” – questo lo slogan sui muri e sui bus – e l’incontro in parlamento fra i deputati catalani e i rappresentanti di Batasuna (Paesi Baschi), Sinn Féin (Irlanda), Indipindenza (Corsica) e Indipendèntzia Repùbrica de Sardigna – oltre al deputato italiano Mauro Bulgarelli, amico e sostenitore dei popoli in lotta per l’autodeterminazione – è stato un momento necessario di dialogo e confronto fra realtà politiche differenti. Un tentativo, ha sottolineato il corso Sargentini, di trovare risposte collettive in materia d’Europa. In Spagna dunque incombe (per il 20 febbraio) un referendum per sancire o meno la ratifica della Costituzione europea e la Catalogna, al contempo così europea e così cosciente di sé, si presenta come un punto nevralgico e strategico, non solo per se stessa: essa scardina molti stereotipi associati generalmente alle “questioni nazionali” e pone obiezioni di sostanza sia a chi parla di un’Europa capace di promuovere le sue diversità, sia a chi ogni volta ritiene superate le questioni indipendentiste perché “ormai c’è l’Europa” e questo dovrebbe bastare a darci spazi (o sprazzi) di sovranità, sia a chi crede che indipendenza e Europa siano inconciliabili in principio. Come ha sintetizzato Eoin O’Broin, che in Europa con la sua Irlanda divisa c’è già, «non c’è bisogno di essere contro l’Europa per dire no a questa costituzione». Sentimento generalizzato di un indipendentismo che si concepisce europeista ma coltiva l’immagine di un’altra Europa. Invece, come ha detto Josep Carod-Rovira, leader di ERC, nell’atto finale della campagna per il referendum davanti a duemila persone e decine di telecamere, l’Europa di questo trattato ha molte cose che non vanno. Non prevede il diritto all’autodeterminazione e dunque non riconosce veramente la diversità nazionale. Il che significa, ha spiegato il basco Gorostiaga, che mentre si sottomette giuridicamente alla Carta dell’Onu, il Trattato ne rifiuta il diritto basico posto, oltretutto, “a garanzia della pace”. Insomma, “ci chiede di suicidarci come popoli” in quanto riconosce come tali solo quelli degli Stati esistenti. Inoltre, ha ribadito l’altro europarlamentare, il catalano Bernat Joan, annulla la diversità linguistica reale e gli spazi di intervento decisionale a livello europeo delle cosiddette “Nazioni senza Stato”. Obbliga poi gli Stati all’aumento delle spese militari mentre smantella i diritti sociali: alla salute, all’istruzione, alla casa. Vale a dire, ha ricordato Bulgarelli, offre come modello una società militarizzata e fatta di “brandelli di diritti”, senza democrazia e partecipazione. Insomma, ha detto Gavino Sale, questo trattato sacrifica la diversità sull’altare del dioeconomia e mentre toglie ai popoli la possibilità di tradurre se stessi in termini moderni trasforma l’Europa in un meccanismo distruttore delle “sacche di umanità” che ne dovrebbero fare la ricchezza. Problemi non da poco, soprattutto per una Sardegna ancora alla ricerca della sua coscienza.

17/02/2005

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Isgàrrica s’artìculu: 2005-02-17 – Catalogna e Sardegna, le patrie dei destini incrociati

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