di Staff Radio Indipendèntzia
D: Mauro Pili ha recentemente lanciato l’idea una Sardegna “regione-Stato” all’interno dell’Europa, rivendicando dunque una sorta di super-specialità basata principalmente sul fatto dell’insularità. Cosa ne pensa iRS? Come interpreta questa proposta?
R: Considerando quanto riportato nell’intervista di Pili quello della “regione-Stato” sembra essere un modo nuovo per chiamare le solite vecchie cose. Si tratterebbe – ammesso che sia possibile – più che altro di un aggiornamento in chiave europea dell’autonomia attuale. Un aggiornamento basato esattamente sull’idea cardine dell’autonomismo sardo, quello del rivendicazionismo economico.
D: Eppure Pili parla di una “nuova via dell’autonomia”…
R: Posto che iRS non ha alcun interesse per l’Autonomia, che è esattamente ciò che ha distrutto l’idea di Nazione sarda e ci ha portato nel vicolo cieco in cui siamo, va notato che per Pili questa grandiosa riforma che l’intelligenza unionista di destra ha prodotto si riduce, come dice lui, a “pane e lavoro”. Insomma, il solito ritornello del “siamo poveri, siamo morti di fame, qualcuno ci aiuti”.
D: Ma forse la ricetta è diversa, o no?
R: Più che diversa è perversa perché mentre Pili invoca i poteri di uno Stato poi propone come riforma dell’economia un modello di tipo neoliberista che esclude in principio proprio l’intervento dello Stato negli affari economici. Insomma, pare che Pili non abbia ben capito alcuni principi basilari delle dottrine che invoca e professa.
D: È possibile che dietro questa apparente contraddizione ci sia una strategia più profonda?
R: Volendo far credito a Pili si potrebbe pensare che il trucco ci sia: chiedere i poteri di uno Stato per poter decidere esattamente il suicidio dello Stato, inteso in questo caso come garante di forme concertate e collettive di regolazione del mercato, di redistribuzione del reddito, di garanzia di servizi basici ai cittadini. Un trucco non da poco.
D: E comunque, tornando all’aspetto politico, si parla pur sempre di Stato, anche se nella forma di “regione-Stato”, non vi è una differenza rispetto al passato?
R: Se è per questo Pili chiudendo la sua vincente campagna elettorale di qualche anno fa parlò del progetto di una “nuova nazione sarda”. Dal giorno stesso della sua elezione lo portò avanti così bene e con così tanta passione che ci si è perfino scordati che l’avesse dichiarato! Insomma, se qualcuno, in particolar modo qualche indipendentista, pensa di potersi fidare del modo in cui i politici sardi unionisti utilizzano strumentalmente i termini “nazione sarda” e “Stato” evidentemente o è ingenuo o disperato. Oppure è autonomista.
D: Dunque si tratta solo di tattica, in questo caso anti-Soru?
R: No, in effetti le cose stanno anche peggio perché questa proposta apparentemente nuova è esattamente quella fatta dal sardismo alle sue origini a cui peraltro Pili ha detto spesso di ispirarsi.
D: Cioè?
R: In contrapposizione all’idea di indipendenza nazionale della Sardegna quello che il sardismo propose era esattamente di “fare della Regione uno Stato”: novant’anni dopo Pili non riesce a far altro che ripetere quell’idea, forse credendo che nessuno conosca la storia della Sardegna e degli innumerevoli baratti a cui è stata sottoposta dai suoi dirigenti.
D: Cioè? Ci sono altre similitudini e altre spiegazioni che questa proposta richiama?
R: Sì, un’altra è molto importante. L’idea di fare della Sardegna una “regione-Stato” fu a suo tempo un modo per dare il contentino a quelle masse sarde che dalla prima guerra mondiale erano uscite con una crisi di fiducia totale nei confronti dell’Italia e dei suoi governanti. Parlare di regione-Stato e agitare il rivendicazionismo economico – anche molto duro, almeno a parole – era un modo per essere contro lo Stato italiano ma salvando la fedeltà e l’appartenenza all’Italia come nazione, come entità culturale e affettiva. Un po’ d’orgoglio sardo anti-statale in modo da dimenticarsi la questione della differenza nazionale. E in parte il trucco ha funzionato.
D: Perché questa situazione si ripete?
R: Perché oggi come allora, una classe dirigente unionista sente che dal fondo della società sarda, sebbene in modo confuso, qualcosa preme, qualcosa che è nell’ordine di un cambiamento radicale. Questa classe dirigente sentendosi profondamente italiana, essendosi integrata ed asservita ad un potere e ad una identità esterna cerca di salvare la situazione chiedendo un po’ di potere in più – un po’ di autogoverno – e dando in cambio i nostri cuori, la nostra dignità, la nostra diversità, il nostro diritto all’autodeterminazione. Proprio come quei “giovani colti” – così si definivano – che guidavano il sardismo, che invece di trasformare la sfiducia nei confronti dello Stato italiano in una vera e propria coscienza nazionale sarda partorirono l’autonomismo rivendicazionista. Un mostro gelido, privo di cuore e di passione, di memoria e di coscienza, e soprattutto di volontà e speranza – fattori oramai appannaggio di quell’entità, secondo loro l’unica davvero “civile”, a cui si erano votati.
D: È possibile allora che questo tipo di logica riguardi solo l’autonomismo di destra e non quello di sinistra?
R: Il centrosinistra italiano in Sardegna, benché “sardizzato” attraverso il continuo mutamento dei nomi dei partiti, rimane pur sempre italiano nel suo sentire e nel suo agire.
D: Vale per tutte le sue componenti, senza distinzioni?
R: In effetti la peculiarità di alcuni soggetti politici e di alcuni volti nuovi nel panorama del “centrosinistra” ha dato a molte persone la possibilità di credere che siano in atto dei mutamenti sostanziali nel modo di concepire la Sardegna. Il caso Soru è sicuramente il più rilevante, e ciò per via di alcune battaglie ingaggiate dall’attuale governatore, in particolare quella riguardante le servitù militari.
Tuttavia, senza voler sminuire gli atti compiuti finora che meritano invece grande attenzione, bisogna anche dire che dal punto di vista politico la logica di fondo non è così innovativa. Prendiamo ad esempio proprio la questione delle servitù militari: mai Soru ha detto che la presenza delle basi è ingiusta e che lo è perché si tratta basi straniere – e con ciò ovviamente dovrebbe intendere sia quelle USA che quelle italiane – sul suolo della Nazione sarda. Anzi, il suo motivo d’attacco è stato il ritornello autonomista dell’ “abbiamo già dato abbastanza”: come dire che da buoni italiani abbiamo già fatto la parte che ci spetta e che ora ci aspettiamo che ci dispensino di ulteriori carichi. In pratica ci dovrebbero levare le basi per comprovati meriti sul campo, per eccesso di fedeltà e di zelo. Va detto a questo punto che se anche Soru “personalmente” non intendesse avvallare in toto questo tipo di ragionamento è il modo in cui funziona l’autonomia che riporta tutto, di fatto e di continuo, a questa logica suicida e snazionalizzante.
Certo nessuno può escludere che, come successe per la Rivoluzione francese, si inizi con la richiesta di aggiustamenti all’ordine costituito e si finisca col decapitare il Re, ma bisogna anche essere realisti e ricordarsi che la questione delle servitù militari non coincide pari pari con la questione della coscienza nazionale sarda. Anche iRS è impegnata sul tema – siamo probabilmente gli unici che hanno subito denunce e processi in merito – ma sappiamo benissimo che non basta liberarsi delle basi per costruire una nazione. Insomma, bisognerebbe impostare la battaglia come un confronto fra nazioni diverse, in cui una – la nostra – lotta per tornare in possesso della sua terra. Ma in questi termini discorsi di chi governa oggi in Sardegna non se ne sono sentiti
D: Eppure Soru, almeno per alcuni, pare più vicino di altri all’idea di “nazione sarda”, non è così?
R: Il discorso meriterebbe molte più parole, perché nasce dalle dichiarazioni fatte da Soru prima di buttarsi in politica, dichiarazioni che avevano un’aura apparentemente “indipendentista”, prendendo il termine in modo molto generico e sentimentale.
Restando all’oggi quello che si può dire è che a parte un paio di uscite in cui si è fatto cenno all’idea di “nazione senza Stato” il linguaggio di Soru è scientifico nel costante riaffermare l’idea di “Regione”. La cosa è fin quasi eccessiva: perfino quando potrebbe usare frasi più neutre – e dunque anche più ambigue, più cariche di potenzialità – del tipo “la nostra terra”, “la Sardegna” Soru implacabilmente usa il termine “Regione”.
D: Ma può bastare questo per dire che non ritiene la Sardegna una nazione senza Stato?
R: Come dice sempre Gavino Sale, uno non entra in un bar chiedendo un caffè se vuol bere un’aranciata
Ovviamente a patto che non stia dissimulando, non abbia le idee confuse, abbia qualcuno che gli punta una pistola alla schiena obbligandolo a non dire ciò che veramente vuole o addirittura stia lanciando qualche messaggio in codice per chissà chi. Insomma, se valutiamo ciò che Soru crede e vuole in base a ciò che finora ha detto di volere non possiamo fingere di essere davanti a un paladino della nazione sarda, nel senso di colui che ha come idea e scopo l’affermazione della Sardegna in quanto nazione indipendente.
Giusto per chiarire: anche Soru, concludendo il suo intervento di fine anno (2004) su Sardegna1, ha per due volte ribadito che il suo compito ed il suo augurio era quello di dare lavoro – e fin qui passi, ormai ci siamo abituati – e di portare la Sardegna “al livello delle regioni del nord Italia”. Una frase che tradisce il vecchio impianto “meridionalista”, che peraltro alcuni collaboratori di Soru hanno riesumato e propagandato pubblicamente. Non è certo un modo di ragionare da nazione.
D: Come si possono allora interpretare quegli sporadici richiami alla nazione senza Stato?
R: La prima risposta è che probabilmente la questione preme per emergere anche in Soru, così come succede in tanta parte della società sarda. Basti ricordare quel sondaggio di Videolina che dava al 43% le persone che (privatamente, quasi in segreto) si dichiaravano favorevoli all’indipendenza
Insomma tutti, soprattutto coloro che sono più sensibili, sentono che questa questione è irrisolta. Se poi essa rispunta sinceramente e non strumentalmente significa che qualcosa è in movimento. Del resto tutti possono cambiare
D: E la seconda risposta?
R: La seconda risposta è che Soru ha fatto sua un’idea che circola in ambito globale: vale a dire che lo Stato-nazione è finito o inutile. È un argomento che la sinistra italiana usa con grande facilità soprattutto quando c’è da negare l’indipendenza degli altri ma che mai usa, guarda caso, riferendosi all’Italia stessa. Si tratta in definitiva dell’idea trita e ritrita del “siamo in Europa, non c’è più bisogno dell’indipendenza per affermare se stessi”. Detto questo, considerata tale premessa, chi si accoda a tale visione può anche concedere qualcosa dal punto di vista della nazionalità, vista però più come fattore intimo e sentimentale che non come elemento politico. Insomma, se con Pili avevamo lo Stato senza la nazione qui rischiamo di avere una pseudo-nazione senza Stato. Dico “pseudo” perché è fin troppo chiaro che se un politico sardo importa questa idea, questa auto-obiezione contro le potenzialità stesse della sua terra, sta già partendo col piede sbagliato e ci vuole poco ad accorgersi che negando la possibilità di essere Stato si sta negando la stessa questione dell’esistenza nazione, come se fosse un argomento “superato” e non decisivo politicamente.
D: Insomma, due trucchi?
R: In qualche modo sì. Ci se ne accorge se si pensa che entrambi fingono che sia possibile saltare il rapporto con lo Stato italiano per relazionarsi direttamente con l’Europa, come se il rapporto con l’Italia non avesse influenza sui nostri affari interni: ma sia Soru, con i tanti provvedimenti respinti – a partire dalle basi – sia Pili, con la sua stessa dipendenza nei confronti degli interessi di Berlusconi e della destra sono la prova palese dell’esistenza di questa catena, e della necessità di spezzarla.
Il trucco è far finta che la catena non ci sia spostando l’attenzione sull’Europa o sui singoli problemi staccati gli uni dagli altri (lavoro, servitù militari, energia, lingua ecc.). Quando si ragiona da nazione non si può che cercare di guardare tutto il quadro e ogni elemento ritorna alla vista, ognuno con il suo peso. Questo sguardo è il compito primo di un indipendentista.
Del resto chi finge che la Sardegna possa relazionarsi direttamente con l’Europa oggi dimostra di non avere né coscienza nazionale sarda né acume politico. Non tiene conto infatti della forza di acculturazione che continua a provenire dallo Stato-nazione in cui siamo ingabbiati e non si rende conto che chi oggi riesce a contare in Europa sono quei popoli che riconoscendosi come nazioni e dandosi la forma di Stato – Lituania, Lettonia, Estonia, Malta
Italia – riescono a pesare e contare di più di zone ricche e popolose come ad es. la Catalogna che in Europa, proprio perché non indipendenti, è come se non esistesse.
D: Qualcuno potrebbe dire che alla fine unendo i due autonomismi, quello dello Stato senza la nazione e quello della quasi-nazione senza lo Stato si potrebbe fare l’indipendenza…
R: Ma non è così, la somma di due autonomismi fa sempre un solido unionismo. A maggior ragione quando nessuna delle parti in causa crede davvero alla nazione sarda.
10/09/2005
_
_
Isgàrrica s’artìculu: 2005-09-10 – La somma di due autonomismi fa sempre un solido unionismo
_