I Sardi di fronte all’Europa. Intervento di Franciscu Sedda

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di Franciscu Sedda

Ci sono eventi contingenti, come le prossime elezioni europee, che suscitano l’occasione di una riflessione su temi strutturali, portanti. Ci sono eventi che si ripetono, come la trentennale impossibilità (strutturale e legalizzata) per i sardi di eleggere propri rappresentanti nel parlamento europeo, che impongono a una collettività di far sentire la propria voce. Ci sono ingiustizie protratte nel tempo che ci devono scuotere, che ci devono far agire, se abbiamo ancora un briciolo di dignità.
Eccoci allora, attraverso l’Europa, messi davanti a noi stessi. Alle nostre contraddizioni, alle nostre paure, alle nostre possibilità.
Ma ripartiamo da lontano, ripartiamo dal rapporto Sardegna/Europa e da come questo si configura dentro il tempo e il mondo globale. Tema profondo e decisivo.
Rapporto complesso che coinvolge al contempo aspetti culturali ed istituzionali, filosofici e giuridici, amministrativi e socioeconomici.
La posta in gioco è alta: prima di arrivare a porre la questione della nostra forza morale – la questione del rapporto dei sardi con se stessi – bisognerà cogliere la dinamica in atto nel rapporto fra Sardegna e processi sociali globali o transnazionali, bisognerà definire il ruolo che la Sardegna vuole avere nello spazio europeo (e non solo, come vedremo), bisognerà prospettare il rapporto fra la futura Repubblica di Sardegna e l’Unione Europea.
Si tratta di un percorso che dovrebbe essere molto più lungo ma che articolerò in cinque passaggi, in cinque passi, nel tentativo di fornire una prima cornice e un primo abbozzo di quel quadro che potrebbe avere come titolo, I sardi di fronte all’Europa.
Cinque passi veloci, prima dell’inizio.

Primo passo: il mondo e l’autodeterminazione
Ci è stato detto per almeno sessanta anni che l’indipendenza è astorica, che il desiderio e la richiesta dell’indipendenza nazionale è anacronistica.
Eppure gli ultimi sessanta anni sono precisamente quelli in cui su questo pianeta – non su Marte, Giove o in qualche lontana galassia – il diritto all’autodeterminazione dei popoli è emerso e si è affermato all’interno del diritto internazionale, come suo principio basilare e costituente. Si è affermato fra contraddizioni e limitazioni, fra slanci ideali e cinismi politici, è vero, ma lo ha fatto, si è affermato: la comunità umana lo ha affermato a se stessa come un valore fondante. Si è affermato per di più mentre si affermava e tuttora si afferma, quantomeno a parole, un altro basilare principio, il principio democratico, quello per cui dovrebbe essere l’autonoma volontà delle persone espressa attraverso la partecipazione, la mobilitazione, il voto a determinare le forme di governo e auto-organizzazione delle collettività. Insomma, fra l’autodeterminazione nazionale sulla base di diritti storici, culturali, sociali, e il principio democratico che sancisce la sovranità delle persone a decidere sulle proprie forme di governo, ce n’è in avanzo per dire che autodeterminarsi, decidere di essere indipendenti, è tutto tranne che qualcosa di astorico o anacronistico.
La cosa è tanto più vera se consideriamo che il secolo appena passato è stato il secolo della proliferazione di Stati indipendenti e che, sebbene a ondate o a singhiozzo, questo processo è andato aumentando e tuttora continua. Per chi non lo ricordasse il secolo che viviamo si è aperto con l’agognata indipendenza di Timor Est ed è poi continuato con una serie di indipendenze sempre più vicine, se non interne, allo spazio europeo. Il caso del Montenegro è in tal senso eclatante: un’indipendenza avvallata dall’Unione Europea e ottenuta attraverso il ricorso a un referendum per l’autodeterminazione.
Basterebbe questo per ricordare quanto l’Europa giochi in modo ambiguo una partita decisiva. Per se stessa – per la sua democrazia interna – e per il mondo – ovvero come garante della risoluzione democratica e pacifica di processi di affermazione nazionale.
Pur non prevedendo nella sua attuale e travagliata Carta costituzionale un riferimento esplicito all’autodeterminazione, e pur non favorendo la sua applicazione all’interno dello spazio dell’Unione Europea, nondimeno l’UE si è pronunciata o attivata per favorire o legittimare alcuni processi indipendentisti (Timor, Cecenia, Montenegro). È in questa spazio scisso, dove si incrociano una storia e una pratica di autodeterminazione disomogenea e tuttavia reale, che si situa la richiesta d’indipendenza dei sardi e di molte altre nazioni storiche che sono parte dell’Europa.

Secondo passo: l’Europa, gli Stati, la democrazia
Ci è stato lungamente ripetuto, soprattutto nei ruggenti anni novanta e in particolar modo dai finti cosmopoliti, dai “cittadini del mondo” della domenica, dai sostenitori di tutte le cause di libertà dei popoli purché molto lontane da casa propria, che “l’indipendenza è inutile perché ormai siamo in Europa”.
Così mentre l’arroganza di destra per lo più se ne fregava dell’indipendentismo e al massimo lo trattava alla stregua di un fenomeno delinquente, l’ipocrisia di sinistra si nascondeva dietro l’Europa per negare quanto era ed è evidente. Per negare agli altri quanto era valido per sé. Vale a dire il puro e semplice fatto che in Europa si esiste, si è riconosciuti e si agisce se si è uno Stato indipendente; che, piaccia o non piaccia, oggigiorno e probabilmente ancora per lungo tempo, l’Unione Europea è e sarà una unione di Stati. Gli Stati nazionali sono ancora il primo attore, sebbene non l’unico, dello spazio politico europeo. E per quanto possano cedere quote di sovranità verso l’alto e verso il basso – cosa che peraltro hanno fatto in modo molto più limitato di quanto ci si aspettasse – è proprio il loro esistere come Stati che gli consente di contrattare e negoziare quale e quanta sovranità cedere.
Non solo, proprio mentre cedeva porzioni di sovranità, e proprio perché cedeva porzioni di sovranità in materie molto specifiche, lo Stato ha riguadagnato un ruolo a livello culturale: mentre scaricava, più o meno legittimamente, sull’Europa il fardello delle scelte impopolari su agricoltura, commercio, fiscalità, ambiente, infrastrutture – favorito anche dalla percezione popolare dell’UE come una istituzione di burocrati, tecnocrati, lobbisti e politici di basso livello – al contempo lo Stato si riprendeva il ruolo di gestore dell’ambito culturale, di promotore di politiche dell’identità. Mai si era vista in Italia, come negli ultimi anni, una tale insistenza sui simboli, i riti, le retoriche dell’identità nazionale, prontamente sostenute da tutte le forze politiche.
Anche per questo, probabilmente, la lagna dell’indipendenza inutile “perché ormai siamo in Europa” è andata ben oltre il centro, la destra o la sinistra fino ad apparire, quantomeno in Sardegna, una retorica trasversale, pronta a coprire al contempo le rinnovate e rinforzate identificazioni nazionali italiane (ma ben poco europee) e le altrettanto rinnovate paure profonde del corpo sociale. La paura dell’indipendentismo in quanto portatore di violenza e povertà – quante volte è stato tristemente ripetuto, senza temere di scadere in un larvato razzismo, che bisognava prendere “il treno dell’Europa” per non “sprofondare in Africa”? – ad esempio. Ma anche la paura dell’indipendentismo in quanto processo che mette alla prova la reale democraticità di chi “democratico” si dice per diritto divino, chi democratico si dice fino al momento in cui la richiesta di indipendenza di un popolo non lo mette nell’imbarazzante posizione di chi d’istinto nega agli altri ciò che ha e vanta per sé. Non c’è dubbio dunque: il processo indipendentista è un grande momento di messa alla prova della democrazia, della democrazia in sé e della democraticità degli attori che sono coinvolti in esso, che sono coinvolti da e in questo processo di autodeterminazione e riarticolazione del corpo sociale e politico. É evidente infatti che in un processo di autodeterminazione è messa in gioco al contempo a) la democraticità della collettività che si rende indipendente; b) la democraticità di quella collettività che fino a quel momento aveva chiuso gli occhi sulla diversità, sui diritti, sugli interessi di quella comunità diversa che dimorava entro i suoi confini; c) la democraticità di quella collettività – che è l’Europa – che dovrebbe farsi garante del rispetto della dignità e della libertà individuale e collettiva, della soluzione negoziata e pacifica di quelle situazioni in cui tale dignità e libertà è, in modo più o meno evidente ed eclatante, negata o non pienamente affermata e compiuta.
L’indipendenza è un delicato momento di messa alla prova dell’umanità dell’uomo.

Terzo passo: fra noi e l’Europa
Torniamo al presente e valutiamo una serie di elementi. Primo, è evidente che l’UE è ancora oggi un insieme di Stati che ben poco spazio lascia a chi Stato non è. Secondo, nonostante la retorica della “crisi dello Stato-nazione” il miglior modo per esistere ed essere riconosciuti come attore politico nella geopolitica globale è essere uno Stato indipendente. Terzo, non si vede quali siano i motivi per negare a una collettività storica che in forma volontaria e nonviolenta si vuole autodeterminare la possibilità di divenire una nazione-Repubblica, in particolar modo se ciò vuol dire dar vita ad uno spazio sociale in cui si esercita il processo democratico attraverso la creazione di una specifica ed originale sfera pubblica che valorizza la pluralità interna, rispetta le prerogative delle sue minoranze, garantisce i diritti di ogni singola persona. Se tutto ciò vale e non contrasta con la partecipazione alla costruzione di uno spazio sovranazionale e transnazionale quale l’Europa è e deve essere – e infatti guarda caso per l’Italia, la Francia, la Germania, la Spagna non pare contrastare… – perché noi sardi dovremmo essere soddisfatti di essere in Europa come ruota di scorta o zavorra dell’Italia?
Non si capisce davvero per quale strano motivo, date tutte le condizioni precedenti, noi, noi che se vogliamo possiamo autodefinirci nazione – così come fanno l’Italia, la Francia…e Malta – dovremmo essere soddisfatti di questo ruolo marginale, periferico, subalterno. Non si vede, addirittura, perché dopo trent’anni dovremmo ancora far finta che lo Stato italiano sia il miglior garante del nostro rapporto con l’Europa quando da trent’anni, grazie allo Stato Italiano e alla Regione Autonoma, noi non siamo e non possiamo essere in Europa.
Che tutto ciò abbia a che fare con responsabilità che sono anche dei sardi, e che dobbiamo assumerci in pieno, non toglie assolutamente nulla all’assurdità della nostra situazione. Ci siamo raccontati che la rinuncia all’indipendenza era – fra le altre tante strane cose – una garanzia alla nostra partecipazione in Europa e poi di fatto noi, da questa Europa, siamo tagliati fuori.
In questa nostra situazione l’Europa sembra come il coniuge che va a trovare il marito recluso in carcere, che gli può parlare solo in presenza della guardia carceraria. E questo forse sarebbe già un quadro allettante.
Ciò che ci troviamo a vivere è invece la pura e semplice frustrazione. Una frustrazione che aumenta quanto più i nostri governanti di sinistra e destra, Soru prima e Cappellacci dopo, non si mettono remore a parlare di “nazione sarda” o di “autodeterminazione del popolo sardo”.
Ma se questo è vero, come possono accettare che questa nazione, questo popolo, siano poi beffardamente esclusi dallo spazio europeo? Come fanno a ignorare costantemente il problema? Come fanno a convivere con i rimorsi per non aver fatto nulla per scorporare quantomeno il collegio Sicilia-Sardegna o per non aver sfruttato nemmeno la legge sulle minoranze linguistiche? Con quale senso dell’indecenza vengono a chiedere ancora una volta di votare per i candidati italiani di centrodestra e di centrosinistra che ovviamente non ci rappresenteranno? Chi credono di prendere ancora in giro? O stanno forse prendendo in giro se stessi, giocando il ruolo di chi volontariamente si incarcera e poi se ne compiace?
Un saggio persiano pare abbia detto: “Nulla è più frustrante per l’uomo che sapere molto e potere nulla”. Ammesso (ma non concesso) che questi nostri dirigenti sappiano di essere nazione, vale a dire ammesso (ma non concesso) che quando dicono “nazione sarda” credano davvero di identificarsi in una nazione a tutto tondo come l’Italia o la Francia, come possono poi accettare che il rapporto fra Sardegna ed Europa sia soffocato, castrato, azzerato dalla presenza invadente dello Stato italiano?
Sembra tutto così insensato che viene da pensare che la domanda da porre e la risposta da cercare siano assolutamente altre. Forse, per riprendere la responsabilità su noi stessi, su noi sardi di fronte all’Europa, la domanda che dobbiamo davvero porci è: possono i sardi ancora accettare che il loro rapporto con il mondo sia delegato a una tale classe dirigente, che mentre parla di nazione sarda ed Europa ci consegna mani e piedi allo Stato italiano?
Ecco cosa si interpone fra noi e l’Europa. La nostra incapacità di esprimere una classe dirigente che sia davvero nostra, che sia davvero nazionale, che sia davvero all’altezza delle sfide globali che i sardi e la Sardegna devono affrontare.
Fra noi e l’Europa c’è la nostra incapacità di essere cittadini attivi, attenti, partecipi: la nostra incapacità di farci opinione pubblica che sa ciò che accade in Sardegna, in Europa, nel Mondo e così facendo controlla il potere, incide sulle scelte. Si fa essa stessa potere attivo e trasformativo.
Fra noi e l’Europa c’è la nostra incapacità di pensarci già dentro l’Europa e il Mediterraneo, l’incapacità di pensarci parte costitutiva e costituente di questi spazi che già noi abitiamo, perché da sempre ne siamo parte.
Fra noi e l’Europa c’è la nostra incapacità di immaginare la normalità della nostra indipendenza: chi pensiamo che si stupirebbe vedendoci entrare in Europa come repubblica indipendente? O qualcuno di noi crede ancora, seriamente, che gli altri europei, vedendo la Repubblica sarda far parte dell’UE, esclamerebbero: “Ormai in Europa accettiamo cani e porci!”?
Ciò che si interpone fra noi e l’Europa – o forse semplicemente fra noi e noi stessi – è il nostro orgoglio risentito che nasconde in realtà, dentro di sé, la sfiducia in noi stessi, l’ignoranza della nostra storia di nazione, il pessimismo nei confronti del futuro, il fatalismo rispetto al presente.
Ciò che si interpone fra noi e l’Europa è il nostro non voler credere, sperare e agire per cambiare, per essere migliori, per divenire liberi.
Per questo dobbiamo ambire a una nuova coscienza nazionale e costruire un nuovo indipendentismo. Ponendo la nostra coscienza nazionale come compito e la nostra indipendenza – nonviolenta e non nazionalista – come banco di prova noi ritroveremo l’Europa, il Mediterraneo, il Mondo. Ma soprattutto ritroveremo la Sardegna, l’unità, l’entusiasmo.

Quarto passo: giocare la partita delle interdipendenze
Il mondo sta diventando una rete di interdipendenze. E l’Unione Europea, pur nelle sue imperfezioni, è probabilmente il più compiuto e ambizioso tentativo di regolare questa trama di interdipendenze. Almeno all’interno di una porzione di mondo.
Possiamo provare a immaginarci l’UE come un campo di calcio, o ancor meglio, uno stadio all’interno del quale si incontrano e fanno la loro partita una serie di giocatori, che pur con ruoli e interessi parzialmente diversi accettano di giocare allo stesso gioco, nello stesso luogo, secondo regole condivise ed elaborate insieme. La metafora ha certo le sue lacune: potrebbe suonare negativa per l’euro-ottimista che non condividerà il tono eccessivamente agonistico o troppo positiva per l’euro-scettico che ritiene l’Europa ancora priva di reali regole condivise o la considera fatta di regole decise dagli interessi di pochi. Tant’è. Il punto, in questa metafora, è un altro. E cioè, dove siamo noi sardi? In campo? In panchina? In tribuna? O addirittura fuori dallo stadio, nella desolazione di un parcheggio privo di vita?
Certo, un sardo che si sente italiano, che si riconosce nel sistema politico e partitico italiano potrebbe anche sentirsi in campo. Sarebbe del tutto legittimo. Certo poi non dovrebbe lamentarsi come sardo di non vedere la “sua” politica occuparsi in Europa della Sardegna, dei suoi diritti e dei suoi interessi. Il punto è ovviamente un altro: dov’è un sardo che si sente sardo? dove siamo noi sardi intesi come collettività storica che prende sempre più coscienza di avere suoi diritti e un suo ruolo nel mondo? Beh, se ci va bene, se non siamo desolatamente nel parcheggio, siamo al massimo nell’ultimo anello della tribuna, tanto lontano dal campo che è quasi impossibile dire che cosa vi avvenga. Sembriamo come quei tifosi ingenui che gridano “goal!” quando la palla è finita sull’esterno della rete e poi, quando il gioco riprende normale, passano il tempo a chiedersi: “Ma l’ha annulato?!”. Insomma, siamo talmente distanti che le trasformazioni del mondo, e la capacità di incidere su di esse, ci sfuggono, si fanno confuse, ci fanno apparire ingenui, smarriti, sempre fuori posto e fuori tempo.
E tuttavia, tutto questo potrebbe andare anche bene. Potrebbe andare bene finché non si pretenda dalla propria vita (politica) niente di più che delegare ad altri scelte decisive sulla nostra esistenza fisica, materiale, morale. Cosa che peraltro, a pensarci un attimo, suona insensata. Insensata in generale (“perché dovremmo continuamente delegare?”) e tanto più ora, ora che il mondo e l’Europa stessa si avviano a definire lo spazio di diritti sempre più ampi, sempre più vasti, sempre più inerenti la vita di ogni singola collettività, di ogni singola persona. Dai diritti politici fino alle decisioni in materia economica, dai diritti di terza e quarta generazione sull’ambiente, la salute, il consumo, il corpo – fino a definire una vera e propria “costituzionalizzazione della persona”, come l’ha chiamata Stefano Rodotà -: “perché dovremmo delegare tutto ciò?”. Vogliamo davvero escluderci da processi così importanti e decisivi? Preferiamo dunque una vita politica passiva piuttosto che una vita activa? Ci vogliamo veramente accontentare di stare in tribuna? Io credo proprio di no, assolutamente e decisamente no. Noi sardi non vogliamo più stare né in tribuna né in panchina. Noi vogliamo giocare la nostra partita, fare il nostro gioco. Vogliamo finalmente, e in tutti i sensi, metterci in gioco.
Per farlo abbiamo bisogno della nostra sovranità, abbiamo bisogno di ricominciare ad acquisire quote di sovranità sempre più ampie, perché “è la sovranità che ci dà il diritto e il potere di negoziare le interdipendenze” (Jean-Marie Tjibaou).
Noi vogliamo l’indipendenza per poter entrare davvero nel gioco delle interdipendenze. Un paese piccolo come il nostro ha bisogno di essere indipendente per poter essere davvero in Europa.

Quinto passo: un doppio repubblicanesimo
Jürgen Habermas, uno dei maggiori filosofi contemporanei, è forse colui che più si è spinto nel proporre un superamento del nazionalismo dei singoli Stati europei e nel reclamare la necessità di una vera e propria Costituzione politica per l’Europa.
Quello che Habermas propone è un “patriottismo costituzionale”, ovvero una sorta di repubblicanesimo europeo, in cui la partecipazione ad un processo costituente e la condivisione di uno spazio pubblico di confronto, dibattito ed elaborazione di quella stessa costituzione (“il contesto intersoggettivamente condiviso di una intesa possibile”) crei una nuova cittadinanza democratica europea. E tuttavia, nel suo famoso saggio Una costituzione per l’Europa?, così lui stesso concludeva: “L’identità europea non può comunque significare nient’altro che una unità nella pluralità delle nazioni”.
Questa argomentazione che a prima vista potrebbe apparire contraddittoria non suona invece affatto tale per chi come noi porta avanti l’idea di un indipendentismo non nazionalista, ovvero la necessità di una Repubblica sarda che faccia dell’apertura alla diversità, alla pluralità, al nuovo il suo tratto costituente.
Il repubblicanesimo europeo e il repubblicanesimo indipendentista, in altri termini, si sostengono e rafforzano a vicenda. Insieme il repubblicanesimo europeo e quello indipendentista configurano un incastro complesso: un doppio repubblicanesimo virtuoso, saturo di potenzialità da scoprire e sperimentare.
Il repubblicanesimo europeo infatti dovrebbe configurarsi come quello spazio aperto alla pluralità culturale, fra le quali quella espressa dalle diverse nazioni europee, che trova una sintesi sempre imperfetta e in divenire in un patto costituzionale collettivamente elaborato. Il repubblicanesimo indipendentista a sua volta dovrebbe essere uno spazio capace di affermare la sua originalità mentre si apre alla pluralità interna e si lascia coinvolgere contemporaneamente in un processo transnazionale – europeo, ma noi sardi preferiremmo fosse euromediterraneo e ovviamente globale – di traduzione ed elaborazione di valori condivisi.
Mentre il repubblicanesimo europeo ha bisogno della pluralità delle storie nazionali e di tutta la diversità culturale che lo abita per non diventare un corpo senza cuore e senz’anima, così il repubblicanesimo indipendentista ha bisogno dell’Europa e del Mediterraneo, ha bisogno dell’alterità, per non sclerotizzarsi chiudendosi in se stesso, per non confondere la sua quota di universalità – di cui siamo depositari e che dobbiamo donare agli altri – con tutta l’universalità possibile – che gli altri posseggono e che noi dobbiamo saper ascoltare e fare nostra.
L’Europa ha bisogno che l’universalità dei suo diritti nasca dal confronto fra la sua pluralità interna; l’indipendenza nazionale ha bisogno di essere nutrita dalla tensione repubblicana al confronto con l’esterno, al giudizio dell’altro, alla definizione di uno spazio di cittadinanza democratica che sia contemporaneamente sardo e più che sardo.
O meglio ancora, che sia “sardo” proprio in quanto è anche al contempo pienamente europeo, mediterraneo, globale.
Abbiamo bisogno di nazioni non nazionaliste così come abbiamo bisogno di una Europa unita dalla e nella pluralità delle sue nazioni. Inizio: che cos’è la Sardegna?
Nel 1935 Paul Hazard concludeva il suo libro sulla crisi della coscienza europea chiedendosi, “Che cos’è l’Europa?”. E la sua bellissima risposta fu: “Un pensiero che mai si accontenta”.
Questo vorremmo che fosse anche la Sardegna: una nazione che non si accontenta.
Una nazione che non si accontenta di essere corpo inerte, immobile, soffocato, castrato, marginalizzato, azzerato, reso passivo e impossibilitato a partecipare all’Europa, al Mediterraneo, al Mondo.
Una nazione che non si accontenta di luoghi comuni anacronistici, di frasi fatte, di giustificazioni ingiustificabili, di consolazioni sconsolate.
Una nazione che non si accontenta di una classe dirigente succube e di un popolo disattento, di un orgoglio sterile e di una integrazione suicida.
Ma soprattutto una nazione che non si accontenta di sé, che non si culla sugli allori, che non si rispecchia né in una razzistica autodenigrazione né in un narcisismo infruttuoso.
Una nazione che invece si critica positivamente, per migliorarsi. Una nazione che incessantemente, insaziabilmente, si ripensa da capo. Una nazione che ogni giorno si reinventa per ritrovare se stessa.
Una nazione insomma che non si accontenta dell’autonomia ma nemmeno si abbandona e rassegna al nazionalismo: una nazione che dice di no alle assurde rinunce dell’autonomismo così come alle tristi semplificazioni del nazionalismo.
Questa è la Sardegna. Questa è e deve essere la nostra Sardegna: una nazione che si identifica in un indipendentismo aperto, in una Repubblica sarda, europea e mediterranea tutta da costruire.

05/06/2009

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Isgàrrica s’artìculu: I sardi di fronte all’Europa

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